Ormai la notizia si è diffusa in tutto il mondo: i genitori di Charlie Gard hanno rinunciato a proseguire la battaglia legale che aveva infiammato l’opinione pubblica per mesi, poiché i danni cerebrali riportati dal piccolo erano estesi ed irreversibili ed anche il rivoluzionario trattamento brevettato e sperimentato da pochissimo tempo negli Stati Uniti non avrebbe garantito, neanche in caso di efficacia della terapia (ancora tutta da testare) alcun miglioramento della sua qualità di vita.
Tutto, insomma, come già mille volte sostenuto dai medici del Great Ormond Street di Londra che lo tenevano in cura (e in vita).
I macchinari sono così stati staccati e ieri Charlie se ne è andato.
La sua storia ha commosso gli animi di milioni di persone, garantendo generose donazioni che finanzieranno una Charity, un ente di beneficenza, che i genitori di Charlie hanno promesso di fondare per individuare e sperimentare terapie innovative per bambini affetti dalla stessa patologia del loro figlio.
Ora che i riflettori si sono spenti, mi permetto alcune considerazioni, in quanto uomo ed infermiere.
Quella di Charlie è stata un’occasione sprecata.
A lungo il dibattito si è incentrato sull’efficacia della terapia sperimentale, mentre ogni discussione circa la qualità di vita del piccolo è stata sempre soffocata dagli “inni alla vita” twittati a gran voce anche da personaggi di rilievo mondiale, come il Papa ed il Presidente degli USA.
Mentre medici e legali del GOSH insistevano sul fatto che Charlie aveva una qualità di vita scadente; mentre professionisti di rango internazionale, con esperienza decennale, sostenevano che mantenere accesi macchinari salvavita comportava nel suo caso solo una prosecuzione di una già lunga agonia; mentre le più recenti ricerche dimostravano che le possibilità di miglioramento erano remote e comunque non applicabili al caso di Charlie, a causa dei danni cerebrali subiti, dall’altro lato si levava alto l’urlo “diamo una chance a Charlie” e “salviamo la vita a Charlie”, contro la “sentenza di morte” ed i medici che “giocano a fare Dio”.
Il punto è proprio questo: quand’è che si gioca davvero a fare Dio? Quando si spengono macchinari che nutrono ed ossigenano corpi umani altrimenti destinati alla morte? O quando li si mantiene accesi ad ogni costo?
Come vogliamo intendere la vita?
Molti credenti si sono ostinati in queste settimane sul concetto, affermato da Papa Francesco, secondo cui “bisogna difendere la vita anche nella malattia”.
Ecco, il concetto di vita è quello religioso o quello biologico? Perché, in quest’ultimo caso, lo possiamo considerare come il funzionamento chimico-fisico delle cellule che costituiscono il nostro organismo.
Pertanto chiedere la continuazione di trattamenti come quelli cui Charlie, ma prima ancora Eluana Englaro, Piergiorgio Welby e Dj Fabo in Italia erano sottoposti ha senso.
Chi è credente, tuttavia, mi sembra che intenda la vita in un altro modo, quello che a Charlie è stato purtroppo negato dalla sua malattia: a quell’età un bambino dovrebbe imparare a parlare, ridere, giocare, mangiare la pappa, fare una passeggiata con i genitori nel parco.
Charlie non ha mai potuto, né avrebbe mai potuto farlo.
Non avrebbe potuto nemmeno interagire con i genitori, donare e ricevere un sorriso, e chissà se era perfino cosciente o meno, visti i danni cerebrali riportati.
Possiamo considerarla vita questa? Dobbiamo considerare etica la continuazione del funzionamento dei macchinari che mantenevano stabili i parametri vitali di Charlie?
O piuttosto bisogna vedere in tutto questo una volontà cieca, egoistica ed amorale (non biasimo i genitori di Charlie, la sofferenza che hanno vissuto non può portare facilmente a ragionamenti obiettivi) di negare ad un essere umano, intrappolato senza speranza in una gabbia di carne ed ossa, una fine dignitosa e libera da ulteriore agonia?
Quando termina la battaglia per la vita ed inizia l’accanimento terapeutico?
Affermare di interrompere trattamenti salvavita ad un bambino pone in chiunque, me compreso, infinite resistenze psicologiche e morali.
Dimostrerò perciò quanto sia necessaria una più serena ed approfondita riflessione deontologica su queste vicende, basandosi su ragionamenti scevri dalla religione e fondati piuttosto su dati obiettivi e sulle evidenze scientifiche.
Lo farò evidenziando come spesso l’opinione pubblica usa due pesi e due misure a seconda delle caratteristiche del protagonista (o vittima) della vicenda. prendendo a paragone un caso terribile e raccapricciante, ma analogo a quello del piccolo Charlie.
A differenza del bimbo, però, qui non è stata combattuta alcuna battaglia legale per “dare una speranza di vita”.
Perché lo sfortunato protagonista della vicenda non era un bambino, ma un adulto, cittadino di un Paese molto spirituale, ma che con il Cristianesimo non ha niente a che vedere: il Giappone.
Hisashi Ouchi era un addetto della centrale nucleare di Tokaimura.
Nel settembre del 1999 Hisashi e due suoi colleghi sono di turno, quando nella centrale si verifica un incidente che porta alla liberazione improvvisa di un elevatissimo quantitativo di radiazioni.
Tra tutti e tre, Hisashi ha la peggio. Riceve un’ondata di radiazioni dalle 300 alle 400 volte superiore a quelle di sicurezza per un essere umano.
Il povero operaio viene trasportato con urgenza in ospedale, ma la situazione precipita nel giro di poche ore ed Hisashi, già in preda ad un inarrestabile processo di decomposizione del corpo, causato da una completa distruzione del DNA, viene posto in coma farmacologico, per impedire ulteriori, strazianti sofferenze.
Da questo momento inizia per la sfortunata vittima un calvario di 83 giorni, nei quali i medici eseguono trasfusioni di sangue giornaliere, innumerevoli innesti cutanei, amputazioni, infiniti, disperati trattamenti su un organismo in costante disfacimento.
Dopo quasi tre mesi, i macchinari vengono staccati e l’agonia di Hisashi trova finalmente compimento.
Le poche foto trapelate su Internet e la storia raccontata sono disponibili su questo video tratto dal canale Youtube “Il fuoco di Prometeo”, che tuttavia sconsiglio vivamente alle persone facilmente impressionabili:
Facile invocare per l’infelice operaio giapponese il diritto ad una morte dignitosa, vero?
Facile parlare di accanimento terapeutico per lui, vero?
Facile sostenere che soffrisse, vero?
Eppure Hisashi era in coma farmacologico, quindi non soffriva.
Eppure si poteva ricercare una terapia sperimentale o convenzionale, magari un trapianto di midollo.
Eppure lo si poteva mantenere in vita ancora un po’.
Eppure si deve “difendere la vita anche nella malattia”.
Giusto?