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La consensus conference della FNOPI: un confronto con il Regno Unito.

46 esperti del mondo infermieristico e della sanità.

Un anno di lavoro.

La consensus conference della FNOPI, pubblicata lo scorso martedì, era stata descritta, già nei primi post pubblicati sui social, come una pietra miliare, una bussola, in grado di tracciare la rotta dello sviluppo della professione infermieristica dei prossimi 20 anni. 

Viste le premesse, ne avevo letto tutti i punti, immediatamente e con grande interesse.  

(fonte: Fnopi.it).

Ma non ne ero rimasto affatto entusiasmato.

Per carità, intendiamoci, sono un modesto infermiere e non mi permetterei mai di entrare in polemica con un panel così autorevole. Per giunta, gli ultimi due direttivi FNOPI si stanno spendendo in numerose iniziative volte alla tutela ed alla promozione della professione, con dedizione, intensità e capacità di comunicazione e interazione con gli stakeholder straordinarie.

Tuttavia, avevo avuto subito l’impressione che, più che trattarsi di un documento realmente rivoluzionario, la consensus conference rappresentasse, per alcuni versi, un’occasione mancata.

Per averne conferma o smentita, ho perciò raccolto i ricordi della mia esperienza professionale nel Paese che, talvolta sbagliando (è il destino dei pionieri), da oltre un secolo esplora i nuovi confini della professione infermieristica, indicando la via all’Europa ed al resto del mondo: il Regno Unito.

Non mi riferisco di certo solo alla Nightingale: le figure dell’infermiere specializzato, prescrittore di farmaci, dirigente (solo per citarne alcune) sono state ideate, introdotte e strutturate in Gran Bretagna, peraltro in un contesto sanitario al quale il nostro stesso SSN si è ispirato, all’atto della sua istituzione.

Per capire se la consensus conference degli esperti FNOPI procedesse nella giusta direzione, non potevo quindi prescindere da un confronto con il modello britannico.

Ma il risultato ha confermato le mie iniziali perplessità. Le esporrò in tre punti.

1.L’INFERMIERE GENERICO 2: LA VENDETTA.

Perdonatemi l’ironia del titolo, ma è palese che la previsione di introdurre una “nuova figura di operatore sanitario, formato e gestito dagli infermieri, in grado di operare nei setting assistenziali, certificata in un registro nazionale gestito da FNOPI” sia una proposta di reintroduzione dell’infermiere generico, che susciterà ben più di qualche ironia, perché prevedo molte polemiche.

Nessuno nutre dubbi sul fatto che, affinché l’infermiere sia realmente responsabile e coordinatore dell’assistenza, occorre oggi più che mai l’inserimento di un ruolo intermedio tra il suo e quello dell’OSS, anche perché, altrimenti, la terribile carenza di personale infermieristico presente in Italia (stimata attualmente – secondo l’Università Bocconi – in 100.000 professionisti) implicherà delle due l’una: gli OSS dovranno assumersi responsabilità non previste nell’ambito del proprio ruolo, oppure gli infermieri saranno costretti ad autodemansionarsi, semplicemente perché mancherà personale per l’assistenza di base.

Va però constatato, in primo luogo, che il nostro sistema sanitario non ha mai investito più di tanto sulla promozione della figura dell’OSS.

Ad esempio, la figura dell’operatore socio-sanitario specializzato, che si sarebbe rivelata di estrema utilità nelle strutture residenziali, non è mai entrata a regime, pur essendo stata ben delineata nella norma. Sempre per rimanere “in punta di diritto”, poi, molti decreti ministeriali e regionali, come il D.M. 77/2022, prevedono organici di OSS inferiori a quelli infermieristici proprio nei setting – come gli ospedali di comunità – in cui le caratteristiche dell’assistenza, rivolta a pazienti cronici o subacuti, suggerirebbero piuttosto numeri invertiti.

In buona sostanza, in molte realtà italiane l’OSS è egli stesso demansionato, costretto ai trasporti od alle mere faccende alberghiere, senza alcuna prospettiva di carriera, in un contesto di lavoro ben poco attrattivo: prevedere una figura intermedia tra questi e l’infermiere, quindi, potrebbe aprire un ventaglio di interessanti opportunità.

Ma – per l’appunto – l’OSS specializzato era stato già previsto ed era inteso, perlomeno nell’opinione comune degli addetti al settore, proprio come evoluzione dell’infermiere generico: quindi, perché proporre una “nuova” figura?

Il sospetto che la consensus conference della FNOPI avesse gettato uno sguardo oltre i confini nazionali mi era sembrato piuttosto concreto, già ad una prima lettura delle conclusioni finali del panel.

In effetti in UK dal 2016, proprio per tamponare il crollo nelle nuove iscrizioni conseguente all’abolizione delle borse di studio universitarie, oltre che all’imposizione di parametri di ingresso molto più rigorosi per gli infermieri europei (ancora prima della Brexit), il Governo ha introdotto il ruolo del nursing associate, ovvero dell’assistente infermiere, formato tramite un percorso universitario biennale ed iscritto al registro NMC, più o meno l’equivalente britannico della FNOPI.

Le corrispondenze, anche terminologiche, con la proposta contenuta nella consensus conference sono troppo evidenti per ritenerle frutto del semplice caso: si menziona infatti l’iscrizione della nuova figura in un registro, come i nursing associate inglesi e non in un Albo (come invece accade per gli infermieri italiani), “per tutelare i cittadini e le organizzazioni che fruiranno del loro intervento”, che è esattamente l’obiettivo per cui infermieri e nursing associates sono iscritti nel registro NMC.

Il sospetto si è poi trasformato in certezza dopo l’analisi della relazione, in cui si fa chiaramente riferimento alla figura del “Certified Nursing Assistant” presente “nel contesto internazionale”: nello specifico, quello statunitense (perché, perché continuare ad ispirarsi ad un sistema sanitario così lontano dal nostro?).

Dal CNA – attraverso una traduzione letterale, ma con scadente appeal – è stata poi ricavata la denominazione di “Assistente certificato all’infermieristica” (AIC).

Manca però, nel documento nostrano, un dettaglio importante: ovvero il contesto formativo della nuova figura, che però, a questo punto, presumo dovrà essere di pertinenza universitaria.

Nel rendere inoltre operativa la nuova figura, sarà fondamentale prevedere adeguati scaglioni retributivi tra le varie figure, per scongiurare il pericolo di rendere ancor meno attrattiva la professione infermieristica, attraverso la previsione di ancor maggiori responsabilità, a fronte di una remunerazione di poco superiore a quella di un OSS o di un “assistente”, come già accade oggi. La consensus conference se ne occupa solo nella relazione e in modo abbastanza sfumato, laddove si fa riferimento ad un sistema di gestione strategica delle risorse umane che contempli anche “sistemi di valutazione, ricompensa e sviluppo del personale“.

Scommetto comunque che, fra tutte le proposte del panel FNOPI, quella del “nuovo ruolo” sarà la prima ad essere presa in considerazione dalle istituzioni: l’attuale tendenza politica, supportata dal difficile momento storico di crisi mondiale della workforce sanitaria, spinge infatti a trovare soluzioni facili per tappare buchi nel modo più veloce ed economico possibile. Questa proposta rispetta tali criteri, eccome.  

2. PRACTITIONER, PARAMEDICS, COORDINATORI E INFERMIERI PEDIATRICI: DUBBI, INCERTEZZE, OMISSIONI.

Intendiamoci: l’apertura della categoria “alla base” farà storcere il naso a molti, ma non è affatto un male, fintantoché si prevedano contestualmente percorsi di carriera “al vertice”, come avviene appunto nei Paesi anglosassoni e come anche gli infermieri italiani reclamano da tempo, anche attraverso iniziative eclatanti di qualche tempo addietro, come quella del Noisiamopronti.

Sotto questo aspetto, la consensus conference dedica ampio spazio alla figura dell’infermiere docente universitario e su quella del dirigente, di cui la sanità italiana del Terzo millennio non può più ignorare la rilevanza; fin qui, nulla da eccepire.

In Gran Bretagna, però, ogni infermiere può scegliere tra due percorsi principali di carriera, che spesso, dopo alcuni anni, possono anche parzialmente sovrapporsi: quello manageriale – per l’appunto – e quello clinico, cioè del practitioner specializzato con un percorso universitario ad hoc (in genere un master biennale), in grado di eseguire procedure riservate ai soli medici in molti altri Paesi e di prescrivere farmaci.

Tralasciamo in questo contesto la figura del ricercatore, inserita – sia in Italia che in UK – negli organici universitari, ma non in quelli aziendali.

Ora, il documento FNOPI insiste molto sulla formazione avanzata in ambito clinico degli infermieri, ipotizzando perfino “una laurea magistrale a indirizzo clinico abilitante per un profilo con competenze avanzate”; nella relazione, inoltre, si menziona un asse di sviluppo in senso “orizzontale” in ambito clinico, con il riconoscimento di “funzioni e attività specifiche rispetto al laureato triennalista” e “l’attribuzione della complessità nel paziente degente o territoriale“, ma non si usa mai esplicitamente l’espressione infermiere specialista, mentre talora si impiega quella di “infermiere magistrale” o “laureato magistrale” : perché impegnarsi a trovare una nuova denominazione per gli “assistenti certificati”, ma non attribuire una precisa identità, anche nominale agli specialisti? Perché non definirne il ruolo in dettaglio, ad esempio chiarendo che lo specialista non solo gestisce la complessità, ma può governare in completa autonomia interi percorsi assistenziali, esattamente come avviene in altri Paesi?

E perché accennare solo in modo molto generico, in un altro punto del documento, al riconoscimento, “nel sistema di remunerazione… della specificità del ruolo agito dagli infermieri professionisti nelle organizzazioni sanitarie”?

Se la figura del practitioner appare definita in modo un po’ sfumato- mentre sarebbe stata l’occasione perfetta per definirne accuratamente i contorni – quella del paramedic è invece completamente omessa.

Sostituiamo subito il termine paramedic con quello di soccorritore, altrimenti qualcuno – come già mi accadde in passato – potrebbe avanzare critiche, visto che l’etimologia dell’espressione britannica richiama una vicinanza od un supporto alla figura medica, rispetto alla quale gli infermieri vogliono mostrare sempre maggiore indipendenza e autonomia.

Il fatto è che il paramedic britannico, figura specializzata nell’emergenza-urgenza extraterritoriale, è davvero molto più indipendente e autonomo di qualunque infermiere del 118 italiano; oltre ad essere formato con un percorso universitario specifico, ha anche una carriera distinta rispetto all’infermiere, arrivando – a seguito di ulteriori training – non solo a prescrivere oltre 60 farmaci in completa autonomia, ma anche ad eseguire procedure invasive (come l’intubazione) riservate in Italia al medico.

L’intervento dei paramedics britannici permette di trattare in loco – e quindi di filtrare – quasi la metà degli accessi in Pronto Soccorso, con una gestione extraospedaliera delle emergenze attualmente impensabile in Italia, dove non solo il riconoscimento delle competenze avanzate degli infermieri del 118 trova grandi resistenze nella categoria medica, ma dove la maggior parte delle chiamate, soprattutto nel Nord Italia, vengono gestite da soccorritori “laici”, formati con un corso di 120 ore.

Considerando la drammatica crisi da sovraffollamento dei Pronto Soccorso, con ore di attesa interminabili per problematiche spesso gestibili a domicilio, non menzionare un ruolo specifico di soccorritore, formato attraverso un percorso universitario dedicato, è davvero una lacuna grave ed un’occasione perduta. Certo, si fa riferimento a percorsi post-universitari nel settore dell’emergenza-urgenza, ma è davvero troppo poco.

Altre perplessità riguardano il futuro dei coordinatori: come si concilia la previsione di riservare questo ruolo ai laureati magistrali con la presenza di migliaia di infermieri che hanno già investito un anno di tempo, energie e – spesso – risparmi personali, per conseguire il master di primo livello, attualmente unico requisito previsto per l’abilitazione al ruolo? Sarà loro ancora consentita la partecipazione ai concorsi? Per quanto tempo?

Concludo questa riflessione sulle figure specialistiche con il ricordo di una bellissima esperienza personale, quella che vissi anni addietro presso l’Unità di Pediatria medica dell’ospedale di Pescara.

Fui assunto come libero professionista, senza alcuna esperienza pregressa nella specialità.

Feci del mio meglio per adattarmi il prima possibile. Quando lasciai, dopo un anno, portai con me un’infinità di conoscenze, momenti, immagini di pazienti dolcissimi e di colleghe meravigliose.

Ma mi resi conto che i bambini non sono piccoli adulti e che la formazione ricevuta durante il mio percorso universitario non mi aveva preparato a sufficienza per lavorare in pediatria “con scioltezza”, almeno nei primi tempi.

Trovo dunque corretto che il documento FNOPI ipotizzi la necessità di convertire il corso di laurea in infermieristica pediatrica in un percorso specialistico post-base: ma siamo sicuri che in questo modo venga garantito, nel tempo, un sufficiente turn-over? E qualora si verificasse la necessità di assumere con estrema urgenza, per impedire ad esempio la chiusura di reparti, si andrà a pescare di nuovo dai laureati triennali?     

3. STUDIARE, STUDIARE, STUDIARE… MA QUANDO? COME?

La consensus conference dedica ampio spazio alla formazione, soprattutto magistrale, degli infermieri.

Per avere professionisti esperti, con competenze avanzate, in grado di seguire percorsi di carriera specialistici, i corsi ECM non bastano: siamo tutti d’accordo.

Il punto è: quando trovare il tempo di studiare? E chi paga?

Ad oggi, fatta eccezione per poche aziende illuminate (in genere, pubbliche), la studio post-base è lasciato all’intraprendenza dei singoli, che sacrificano riposo, tempo libero, affetti e denaro per seguire un master od un corso di studi magistrale (le 150 ore di permesso studio sono spesso un’utopia!), per puro desiderio di crescita personale e senza alcun ritorno economico.

Una realtà ben diversa da quella del Regno Unito, in cui si viene sì formati in base alle esigenze dell’azienda, che però finanzia integralmente i corsi di studio e garantisce gli study days.

Perlomeno, fino a poco tempo addietro.

Perché anche in UK, viste le carenze infermieristiche paragonabili a quelle italiane, sta diventando sempre più complicato coprire i puzzle dei turni, consentendo al tempo stesso un rapporto infermiere/paziente adeguato e la formazione avanzata del personale.

In fin dei conti, ci troviamo di fronte ad un circolo vizioso: la crisi nel reperimento di forza lavoro impone sacrifici crescenti a chi è già stato assunto, rallenta o blocca percorsi di studio o progressioni di carriera, il mantenimento di adeguati ratio infermiere/paziente, impedisce il superamento di logiche assistenziali prestazionali/esecutive e di misurazione degli outcome attraverso un data set (quindi ostacolando l’attuazione di molte delle proposte contenute nella consensus conference), forzando quindi molti infermieri ad abbandonare la professione ed a rinforzare il circolo vizioso.

È un gorgo nel quale si fa fatica a galleggiare, figuriamoci a trovare una via d’uscita.

Non credo perciò di poter considerare il lavoro del panel di esperti FNOPI come una pietra miliare, come altri l’hanno definito: in effetti, leggo che il documento verrà presentato alle competenti commissioni parlamentari, per l’analisi e la futura definizione di progetti di legge. Vedremo quali saranno gli esiti.

Nel frattempo, è indubbio che il grande lavoro svolto dal panel costituisca un importante spunto di riflessione, su cui imbastire ulteriori discorsi, proposte e lotte sociali (eh sì, è arrivato il momento) in grado di coinvolgere davvero l’intera categoria.

Esattamente come sta accadendo in queste settimane nel Regno Unito, dove lunghi anni di umiliazioni e sacrifici imposti agli infermieri si sono concretizzati nei primi scioperi generali organizzati in oltre 100 anni di storia sindacale. 

Luigi D’Onofrio

Outbreak di cheratite da Acanthamoeba nel Sud-Est dell’Inghilterra.

La cheratite da acanthamoeba è causata da un protozoo che vive nell’acqua che beviamo e con cui ci laviamo tutti i giorni. È generalmente innocuo, ma se ospitato in un ambiente favorevole alla sua riproduzione, come quello caldo/umido che si crea tra l’epitelio corneale e le lenti a contatto, causa una gravissima infezione che può portare a cecità in pochi giorni, tra dolori lancinanti. Dei pazienti affetti, un quarto presenta una acuità visiva ridotta al 25% o meno e molti devono sottoporsi ad un trapianto corneale, mentre le visite di follow up si protraggono per ben 18 mesi.

È inoltre una infezione difficilissima da diagnosticare (occorre un microscopio confocale, ce ne sono solo 4 in tutto il Regno Unito) e da trattare (i protocolli terapeutici sono ancora empirici e l’unico farmaco approvato è il poliesametilene biguanide 0.2% – PHMB).
Nell’85% dei casi, come già accennato, i pazienti che ne sono affetti sono portatori di lenti a contatto che non osservano una meticolosa igiene nell’utilizzo di questo presidio ed in particolar modo non rispettano la regola delle “3S”:
– don’t shower (non fare la doccia con le lenti a contatto);
– don’t sleep (non dormirci senza prima toglierle);
– don’t swim (non nuotarci in una piscina).

In teoria, la cheratite da acanthamoeba rappresenta una patologia oculistica rara, interessando solo 2,5 pazienti su 100.000 nel Sud-Est dell’Inghilterra e 1 su 100.000 in Europa, ma un recentissimo studio case/control del Moorfields Eye Hospital di Londra ha rivelato che il numero dei casi di acanthamoeba è sensibilmente incrementato, passando da 8/10 casi l’anno nel periodo 2000/2003, a 35/65 nel triennio 2011/2014 nel Sud-Est dell’Inghilterra.

I ricercatori hanno esplorato molti possibili fattori di rischio, riscontrando comunque un’incidenza dell’infezione tre volte più elevata in chi aveva una scarsa igiene nell’uso di lenti a contatto, oppure le indossava in doccia o nella vasca da bagno. Ancora, si è notata una correlazione tra la patologia e l’uso di un disinfettante per lenti a contatto denominato Oxipol, ora dismesso dalla industria produttrice.
In generale, nel Regno Unito l’incidenza della cheratite da acanthamoeba è superiore ad altri Paesi, anche per via della presenza di una elevata percentuale di sali minerali (acqua dura) nell’acqua per uso domestico, ma è comunque improbabile, secondo gli autori dello studio, che uno solo dei fattori, considerato individualmente, sia responsabile dell’outbreak dell’infezione.

Luigi D’Onofrio

Riferimenti: Carnt N., Hoffman J.J., Verma S., et al, “Acanthamoeba keratitis: confirmation of the UK outbreak and a prospective case-control study identifying contributing risk factors”, British Journal of Ophthalmology, published online first: 19 September 2018. doi:10.1136/bjophthalmol-2018-312544

Into the wild: Mattia Cialoni, infermiere in UK e fotografo naturalista per passione.

Sono rimasto colpito da tempo dagli scatti di Mattia, collega d’avventura in UK. Ho scelto perciò di intervistarlo, per conoscere meglio origini e prospettive future non solo della sua carriera infermieristica in terra britannica, ma anche della sua passione per la fotografia naturalistica.

– Raccontaci brevemente di te e delle tue esperienze positive e negative nel Regno Unito.

Ho deciso di emigrare in Inghilterra nel 2014, quando, dopo un anno dal conseguimento della laurea in infermieristica, mi sono ritrovato senza un lavoro specializzato nel mio settore.

Le mie fonti di guadagno erano il calcio (a livello semi professionistico) e lavoretti saltuari come cameriere nel weekend durante la stagione estiva per 50 euro a servizio e al Mc Donald’s con un contratto voucher, lavorando a volte anche turni da sole 2 ore nelle ore più frenetiche del weekend.Quasi tutti i miei guadagni erano pagati in nero e avevo bisogno di un cambiamento importante nella mia vita, una svolta.Sono sempre stato contrario a fare domanda per i concorsi, perché pensavo (e ne sono convinto anche ora) che avere un lavoro sia un diritto e fare così tanta fatica ad ottenerne uno, per poi nella migliore delle ipotesi ritrovarmi comunque lontano da casa, non sia giusto e la possibilità di provare un’esperienza diversa e di imparare un’altra lingua mi affascinava moltissimo.Decisi così di iniziare a studiare l’inglese. Per diversi mesi ho “divorato” libri di grammatica e completato stagioni su stagioni di Grey’s Anatomy (con sottotitoli in inglese), per poi ritrovarmi in un hotel a Milano ad affrontare un colloquio in inglese per un ospedale vicino Londra.Il colloquio andò incredibilmente bene, nonostante alcune difficoltà linguistiche. Ero incredulo nell’accertare, che in poco più di un’ora di colloquio, ero riuscito ad ottenere quello che in Italia si ottiene con tanta fatica, tempo e sacrificio: un contratto a tempo indeterminato.In quella stanza d’albergo mi fu data una grande opportunità.Da lì a pochi mesi dopo mi ritrovai sotto il cielo cupo d’Inghilterra. Era l’Ottobre del 2014 e avevo appena festeggiato i miei 26 anni di età.

All’arrivo in aeroporto, a Stansted, avevo un taxi pagato dal mio ospedale, che mi avrebbe portato nel luogo dove avrei speso i 10 mesi successivi: Wexham Park Hospital, Slough (città a 20 minuti di treno da London Paddington).Mi destinarono all’equivalente italiano di un reparto di geriatria e vivevo in una struttura a pochi passi dall’ospedale, lontano poco più di 5 km dal centro città, nel mezzo della campagna del Berkshire.Sono stato aiutato ad aprire un conto in banca e ad entrare nella realtà lavorativa con dei corsi della durata di 3 settimane: preceptorship e induction (sempre pagati dal Trust).Inizialmente lavorai come Health Care Assistant (l’OSS in Italia) ma, una volta ottenuto il numero di registrazione, iniziai a lavorare come infermiere a tutti gli effetti: diventai staff nurse, band 5.Ambientarmi in una nuova realtà non è stato facile.Mi sono dovuto abituare presto a convivere con dei ritmi estenuanti ed una tipologia di pazienti impegnativa, quella degli anziani, a cui non ero pronto al 100% ma soprattutto la barriera linguistica mi faceva terminare le giornate con il mal di testa.Probabilmente non ero pronto all’esperienza in sé. Facevo fatica a convivere con i ritmi lavorativi dei turni di 12 ore, con il cielo perennemente cupo e con la mancanza del mio paese, del mio cibo e delle mie tradizioni.Fortunatamente ero straordinariamente supportato dalla mia compagna Alessandra (infermiera anche lei) che nel frattempo aveva iniziato a lavorare, qualche mese dopo il mio inizio, nel mio stesso ospedale.Dopo 10 mesi decidemmo di lasciare Slough e di spostarci in un’altra meta, Bristol città vivace e colorata, grande ma non troppo, percorribile in bici e meno caotica di quella Londra che stancava così tanto, dopo le giornate off spese negli ultimi 10 mesi.Visitammo la città nel giorno in cui sostenemmo entrambi un colloquio di lavoro.Io avevo trovato lavoro in un reparto di chirurgia e la mia compagna in sala operatoria.Riuscimmo a trovare, senza poche difficoltà, una stanza in centro in una casa condivisa con altre persone.La convivenza, si sa, non è mai facile. La nostra era iniziata piuttosto bene, ma col passar del tempo qualcosa si era inevitabilmente rotto.Gli altri ragazzi che vivevano in casa erano degli hippie amanti della vodka e organizzavano regolarmente feste all’interno dell’appartamento. Feste di alcool e droga, in cui rimanevano svegli fino a tardi, invitando ospiti che nel cuore della notte rumoreggiavano nella casa.Noi due, infermieri e con turni pesanti, non potevamo tollerare questa situazione e nonostante ne avessimo parlato chiaramente, non siamo riusciti a trovare un punto d’incontro.La situazione in casa rendeva la mia vita lavorativa difficile perché arrivavo al lavoro stanco, con poche ore di sonno e stressato dalla tensione che si era oramai creata all’interno della casa.Facevo fatica a concentrarmi a lavoro e decisi così di parlare con la mia manager, proponendole una riduzione delle ore.Le parlai della mia stanchezza e dei problemi che stavo affrontando in quel periodo. Cercai un aiuto concreto. Lei rispose sottolineando che tutti i membri dello staff hanno dei problemi personali: chi ha problemi con l’alcool, chi con la depressione, chi deve affrontare divorzi e che, fondamentalmente, non poteva ridurmi le ore. Mi consigliò di andare dal mio GP ed eventualmente valutare una terapia, considerando il fatto che avrei potuto iniziare a prendere dei farmaci antidepressivi a bassi dosi o qualche altra terapia che potesse aiutare a combattere i miei problemi.In quell’incontro persi completamente la fiducia nella mia coordinatrice.Non ero disposto ad assumere medicine per trovare benessere.Il lavoro per me non era più uno stimolo e dopo poco tempo ebbi un altro incontro con la manager, che mi comunicò di dover tornare, dopo ben 4 mesi dal mio inizio, in affiancamento (supernumerary). Si giustificò dicendo che quella sarebbe stata per me un’opportunità di miglioramento. Io non ci credevo. La situazione stava andando fuori controllo. Ero affiancato da una senior nurse che mi ridicolizzava davanti a tutti i colleghi, trattandomi come uno studente al primo anno.Nelle settimane successive provai a colloquiare ancora con la mia manager, chiedendole di cambiare infermiera perché mi sentivo ridicolizzato di fronte ad alcuni comportamenti nei miei confronti. Mi rispose che me la dovevo sbrigare da solo e parlare direttamente con l’interessata e cercare di risolvere il problema perché era l’infermiera, a sua detta, migliore che aveva in reparto.Mi venne consigliato anche di lavorare come Nursing Assistant (OSS).A quel punto decisi di licenziarmi e di prendermi del tempo.Avevo appena passato uno dei periodi più bui della mia vita.Nel frattempo io e la mia ragazza eravamo riusciti nell’intento di trovare una 1 bedroom flat molto accogliente.Dopo il licenziamento mandai il mio CV a un’agenzia e applicai per la posizione di “bank nurse” nell’ospedale di Bath, a pochi km da Bristol.Nel frattempo dedicai del tempo a viaggi naturalistici ed esplorazioni. Dovevo disintossicarmi e dedicare un po’ di tempo a me stesso..Dopo solo poche settimane da quel brutto momento avevo due lavori.L’agenzia mi permetteva di lavorare nell’ospedale di Weston Super Mare, a 40 minuti di treno da Bristol, dove prenotavo regolarmente turni nei reparti medici, chirurgici e nel pronto soccorso.A Bath (12 minuti di treno) ho lavorato principalmente in medicina e in cardiologia e ho comunque coperto, nel giro di 2 anni, tutti i reparti medici e chirurgici dell’ospedale.Lavoravo lontano da dove vivevo in centro città e dopo aver passato 3 mesi andando a lavoro in bici – treno – bici svegliandomi alle 4.30 per essere a lavoro alle 7 e tornare a casa alle 9 di sera, decisi di portare la mia macchina italiana in UK per qualche mese.Per i due anni successivi ho lavorato prenotando turni online nel Royal United Hospitals of Bath, lavoravo principalmente di notte e mi prendevo stabilmente all’incirca una settimana ogni mese o due, dove ho viaggiato e investito il mio tempo in esperienze.Da un lato avevo la libertà di programmare la mia vita, dall’altra lavoravo in reparti diversi ogni turno e venivo spostato all’ultimo in altri reparti, il che rendeva la cosa difficile, un poco più stressante. A livello economico guadagnavo come permanent, però dovevo viaggiare 40 minuti di macchina per andare a lavoro e 1 ora per tornare a casa la mattina per poi non avere poi grandi gratificazioni a livello lavorativo. Alla lunga mi sono reso conto che avrei dovuto investire il mio tempo in un lavoro che mi avrebbe permesso di migliorare le mie capacità. A gennaio del 2018 applicai per un nuovo lavoro al Bristol Royal Infirmary, stesso ospedale dove lavoravo 2 anni prima, a 10 minuti a piedi da dove vivo, e dopo aver sostenuto un colloquio di lavoro ero finalmente dentro il reparto di Intensive Care Unit.Sono arrivato ricaricato e pieno di energie dopo aver svolto un duro lavoro su me stesso.Fortunatamente ho trovato un ambiente ideale e stimolante: alto livello di qualità lavorativa, tantissimi giovani e un gioco di squadra eccellente.Dopo diversi tentativi andati non secondo i piani, credo che questa scelta sia stata la più azzeccata che avessi potuto fare. Nonostante le brutte esperienze vissute fino a quel punto ho avuto la perseveranza nel continuare a cercare e non mollare tutto.Alla fine sono riuscito a trovare un buon bilanciamento vita-lavoro.Sono stato supportato tantissimo dalla mia compagna; se fossi stato solo, non credo avrei continuato a vivere in Gran Bretagna, soprattutto per come mi sono sentito in alcune situazioni. Probabilmente sarei tornato in Italia dopo alcuni mesi.Dove lavoro adesso ho le possibilità di corsi universitari e non solo (pagati dall’ospedale) e possibilità di miglioramento importante sia a livello lavorativo che economico.

– Come è nata la passione per la fotografia? Perché proprio la fotografia naturalistica?

Impugnai la mia prima reflex da adolescente e principalmente scattavo foto ad amici, eventi e luoghi che visitavo.Qualche anno fa io e Alessandra andammo in Africa, proprio qualche settimana prima che partissimo per la Gran Bretagna, nell’Ottobre 2014.
2014.Il mondo che vidi in Kenya cambiò nettamente il mio punto di vista sulla vita e sulla natura.Ebbi come un’epifania: un momento di profonda realizzazione e condivisione.Quel viaggio in Africa è stato per me una rinascita.Lo spirito dell’avventura e la visione dei paesaggi selvatici della savana hanno fatto scattare in me una scintilla. Da quel momento in poi avrei investito molto più tempo nella ricerca di quei brividi che mi tenevano incantato di fronte alla purezza della natura e la fotografia per me diventò un mezzo per assicurarmi quei momenti che sarei andato a cercare.

– Dove ti ha portato questa passione?

Appena dopo qualche mese dal mio approdo in UK, ho colto ogni opportunità per esplorare le zone limitrofe del Berkshire e parallelamente spendevo le mie ferie esplorando i parchi Nazionali nostrani.Nel corso degli ultimi anni io e Alessandra abbiamo viaggiato moltissimo.Oltre che organizzare trekking in Italia (Parco Nazionale del Gran Paradiso, Parco Casentino, Gran Sasso e Monti della Lega, Parco Nazionale dei Monti Sibillini, Parco della Majella, Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise…) abbiamo visitato e scalato diverse montagne in vari parchi Nazionali Europei.

Abbiamo ciaspolato nelle remote terre della Lapponia Finlandese, osservato l’aurora boreale a Capo Nord, scalato il Ben Nevis in Scozia, visitato le scogliere Gallesi, Irlandesi e del sud dell’Inghilterra.

Abbiamo visitato le Canarie, il Portogallo e la Spagna, la Francia, il Belgio, l’Olanda.Ultimamente siamo stati nei ghiacci del Polo Nord, alle isole Svalbard e stiamo per partire per un viaggio in Canada, a Vancouver e sulla Vancouver Island.

Oltre ai viaggi on the road/esplorativi negli ultimi anni mi sono focalizzato sulla fauna selvatica e sulla fotografia di paesaggio.Durante i miei due anni in cui ho lavorato come libero professionista (nell’ospedale di Bath come bank nurse) ho avuto modo di approfondire la mia passione per i grandi predatori Italiani. Ho speso sul campo tantissime ore a osservare i lupi e orsi nel loro ambiente naturale, al Parco Nazionale d’Abruzzo. Ho imparato a seguire le tracce, a come nascondermi dentro un cespuglio e a stare in silenzio in attesa, con il sole o con la pioggia, al caldo d’estate o nella neve d’inverno in attesa di un incontro.Ho avuto modo di vivere la natura nella propria interezza e questa base di entusiasmo mi sta spingendo a studiare nuove specie animali e pianificare il tempo per fotografarle.

– Vedi il tuo futuro con una macchina fotografica in mano, immerso nella natura, oppure in una corsia d’ospedale?

Al momento è difficile pensare troppo lontano.Di sicuro la condizione lavorativa in Inghilterra è di gran lunga superiore rispetto a quella italiana e quella nel settore sanitario mi permette di avere gestione della mia vita privata e soprattutto il tempo.In Italia il percorso sarebbe lungo (vedi concorsi) e comunque pieno di sacrifici.Dovremmo ricominciare da zero e anche se dovessimo farcela (in 2 a trovar lavoro nella stessa città) dovremmo rinunciare ai viaggi e alle esperienze che la condizione in Gran Bretagna ci garantirebbe.Dovrei mettere da parte la mia passione per la fotografia e accantonarla chissà per quanto tempo…La professione infermieristica mi permette di potermi organizzare il tempo che ho a disposizione e al momento attuale il lavoro in rianimazione mi piace molto.Tra qualche mese cambierò il mio contratto da “full time’’ a “part time” e avrò comunque la possibilità di prenotare turni extra nella mia unità il che mi permetterà di avere più flessibilità e tempo libero per pianificare e per fotografare.Una opzione che valuterò prossimamente sarà la fotografia di matrimonio.È risaputo come i matrimoni siano una discreta fonte di guadagno, ed avendo già avuto diverse esperienze l’idea non mi dispiace.Visto che poi, negli ultimi anni, ho accompagnato con me diverse persone in montagna, nei boschi e nei luoghi “wild”, mi piacerebbe, in futuro, organizzare avventure fotografiche nei miei luoghi preferiti come seconda professione.

L’idea di trasmettere le emozioni che ho provato io stesso e condividere le mie esperienze nella fotografia mi affascina molto.
Di recente, sto progettando, insieme ad un amico fotografo che vive e lavora per la BBC e la ITV a Londra, di organizzare dei workshop di fotografia di viaggio e naturalistica alle isole Svalbard, nell’Artico, la prossima estate, tra maggio e giugno 2019.

Se dovessi vedere il mio futuro, al momento lo vedrei sia in corsia che con una macchina fotografica in mano. Quello che accadrà poi lo dirà solo il tempo 😀

Mi trovate online sul mio website, http://www.mattiacialoni.com, sulla mia Facebook page (Mattia Cialoni photography) ed ovviamente ho un profilo Instagram, mattiacialoni!

Oh no, ho ricevuto un complaint! E adesso?

Questo è uno scandalo! Mi rivolgero’ al primario/direttore/Presidente della Repubblica!”
Quante volte ci siamo sentiti ripetere questa frase, da pazienti infuriati per un disservizio, in Italia (sì, ho sentito chiamare in causa anche il Presidente della Repubblica)?
Sappiamo benissimo, però, che nel Belpaese “fare la voce grossa” e minacciare è, nella grande maggioranza dei casi, un gesto estremo e talvolta disperato, che può essere immediatamente bloccato con qualche concessione e parola gentile. Anche perché, talvolta, è davvero impossibile accontentare le richieste della clientela.
Difficile che alla protesta segua un’ulteriore iniziativa, soprattutto perché, spesso e volentieri, non si conoscono neppure i canali attraverso cui inoltrarla: in quanti conoscono, o si sono serviti, del Tribunale per i diritti del malato? Una ristretta minoranza, senza dubbio. Senza dimenticare che poi è facile che la lamentela si perda nei mille rivoli della burocrazia.
Nel Regno Unito, al contrario, il complaint scritto, seppur meno frequente di quanto si pensi, è un gesto di rivendicazione dell’utenza, che trova grande considerazione – e suscita enorme preoccupazione. Soprattutto perché il management è obbligato ad aprire un’investigazione interna ed a produrre una risposta al cliente.
Il personale sanitario, ovviamente, è tra i più colpiti, poiché paga spesso le diverse inefficienze legate all’organizzazione, oltre che alla condotta dell’individuo.

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Piccolo glossario della sanità inglese, ad uso dei newbies.

La sister in charge ha detto che la matron dell’ITU ha telefonato, avvisando che il paziente verrà trasferito tra poco, e che verrà la nurse con l’hca a fare l’handover. Il paziente deve rimanere NBM da mezzanotte, OBS ogni tre ore, viene già con IV drip e bisogna continuare la fluid chart, domattina è nella list del consultant e andrà in theatre in mattinata per l’intervento”.

La terminologia sanitaria nel Regno Unito è decisamente spiazzante, per chi i professionisti che vi si inseriscono da un altro Paese europeo, non solo per la predilezione (indigesta a noi italiani) per l’acronimo a tutti i costi, che implica non pochi problemi di comunicazione, anche tra gli stessi britannici, ma anche per il vasto impiego di una terminologia del tutto peculiare, che può confondere anche chi ha già una buona conoscenza della lingua inglese, ma ha seguito molte serie televisive americane.

Giusto a proposito, il nurse inglese è l’RN (Registered Nurse), quello statunitense l’RGN (il significato è lo stesso).
Un Pronto Soccorso USA, invece, sarà indicato come ED (Emergency Department) o ER (Emergency Room), uno londinese sarà tipicamente un A&E (Accident and Emergency).
Ho ritenuto allora utile ed interessante elaborare un glossario dei termini più diffusi e caratteristici, per fornire qualche riferimento a chi si sta approcciando al sistema britannico, a chi vorrebbe farlo, e a chi, infine, è semplicemente curioso.
Mi perdonerete, ovviamente, alcune semplificazioni, pensate solo con finalità esplicative.

Suddividero’ questo glossario in categorie. A proposito… newbie significa “novizio, inesperto”!

RUOLI INFERMIERISTICI E MEDICI

  • Sister: termine di origine religiosa, è ancora molto diffuso per indicare ogni ruolo di senior nurse, cioè di infermiera che svolge anche compiti di coordinamento (in UK non esiste un solo coordinatore dell’unità operativa, ma diverse figure). Gli uomini sono genericamente indicati come senior nurses;
  • Nurse in charge: può indicare l’infermiere che è “a capo” dell’unità operativa, durante il turno di servizio o anche permanentemente;
  • Ward/line manager: è il coordinatore dell’unità operativa. È la figura più vicina al nostro coordinatore.
  • Matron: è il coordinatore dipartimentale (per esempio, dell’A&E e anche delle cliniche annesse, oppure di tutte le unità operative afferenti, chesso’, al Dipartimento di cardiologia);
  • ANP (Advanced Nurse Practitioner): è l’infermiere con competenze specialistiche avanzate per eccellenza. Segue in genere un MSc (master) biennale, che lo abilita a gestire in autonomia percorsi assistenziali, eseguendo procedure invasive complesse (ad esempio, nell’ambito dell’oftalmologia, iniezioni intravitreali) e perfino interventi chirurgici “minori”, come nel caso dei Surgical Care Practitioner (SCP). Se ha seguito un corso specifico, potrà anche prescrivere farmaci. In questo caso, avrà conseguito la qualifica di indipendent nurse prescriber. Il Practitioner, ovviamente, può essere al tempo stesso anche line/ward manager, nurse in charge o matron. In quest’ultimo caso, tuttavia, è logico che si tendano a privilegiare le competenze manageriali, rispetto a quelle prettamente cliniche.
  • Registrar: è il medico specializzando. In genere, il curriculum medico specialistico prevede almeno 6 anni di studio. Quindi il registrar spesso si firmerà, o sarà indicato, come ST1, ST2, ecc.;
  • Fellow: è il medico che ha vinto una fellowship, ovvero che ha completato il suo training, ma sta ricevendo ulteriore specializzazione. Può lavorare sotto supervisione del consultant e in autonomia per i casi “minori”, ovvero di routine. Spesso, in UK, i fellows sono medici a contratto stranieri. Lo possiamo considerare come una sorta di aiuto primario;
  • Consultant: è il medico che ha terminato la specializzazione e vinto la selezione per ricoprire questa qualifica. È paragonabile, anche se non completamente sovrapponibile, al nostro primario. In una stessa unità ce ne possono essere diversi.
  • Paramedics: una nota a parte la meritano i “cugini” paramedics, presenti nei Paesi anglosassoni ma non in Italia (ancora, purtroppo). Sono le figure professionali specializzate ad eseguire prestazioni assistenziali in emergenza – urgenza, sulle ambulanze. Seguono un percorso di laurea distinto da quello infermieristico, ma molto simile ad esso. I paramedics britannici sono quelli con le competenze più avanzate al mondo: se specializzati, possono intubare ed eseguire intraossee.
  • HCA: healthcare assistant (con accento sulla i). È ancora, almeno fino all’arrivo della valanga dei nursing associates, la principale figura di supporto dell’infermiere britannico.
  • GP (General Practitioner): è il medico di famiglia. Il suo ruolo è identico a quello del suo corrispettivo nel sistema sanitario italiano.

STRUTTURA E ORGANIZZAZIONE

  • Trust: è – impropriamente – la nostra ASL. Ricomprende uno o più ospedali, anche in città diverse. Oppure un ospedale e diverse strutture satellite, per esempio cliniche all’interno di altri ospedali;
  • Ward/Unit: è l’Unità Operativa. Curiosamente, non esiste una Unità destinata a pazienti affetti da patologie infettive, che invece vengono ospitati nelle side rooms (ne tratterò in seguito) dei vari wards;
  • Clinic: è il nostro ambulatorio;
  • Day Care/Unit: esiste anche in Italia, ma è interessante notare che, in ambito chirurgico, un servizio finalizzato a dimettere (la dimissione è definita “discharge”) i pazienti in giornata è definito Day Surgery, denominazione che non è presente (o quantomeno assai poco diffusa) nel mondo britannico.
  • Outpatients: è un termine impiegato per indicare il complesso delle cliniche di un ospedale, dove afferiscono i pazienti esterni (“out”), distinti dagli inpatients, che invece sono quelli ricoverati (admitted) nei wards;
  • Out of hours: sono i servizi aperti dopo la chiusura delle clinics. Ad esempio, l’A&E offre servizi in emergenza, in regime di out of hours rispetto ad una clinic.
  • Theatre: è la sala operatoria. Il theatre department comprende l’anaesthetic room (la stanza dell’anestesia) e la recovery (la stanza del risveglio). Vi lavorano, tra le figure infermieristiche, gli scrub nurses (gli infermieri di sala) e, ovviamente, gli anaesthetic e recovery nurses, a stretto contatto con gli ODP, Operating Department Practitioner, figura del tutto peculiare nel mondo britannico, trattandosi di un ruolo senza degree (laurea), ma con competenze avanzate (può anche “scrubbare”).
  • ITU/ICU: Intensive Treatment/Care Unit. È la nostra Rianimazione (termine che ho sempre personalmente trovato un po’ spettrale, tanto da preferire, appunto, l’espressione terapia intensiva).
  • AMU: acute medicine unit. È la medicina d’urgenza.
  • A&E (&U). È il Pronto Soccorso. Può ricomprendere una observation bay (od obs, nel lessico familiare, ovvero nel jargon, clinico/infermieristico). La obs bay (l’& U cui accennavo prima) è l’equivalente dell’antica astanteria, oggi denominata osservazione breve intensiva,. dove i pazienti rimanevano per alcune ore, in attesa di essere stabilizzati e “smistati” nelle varie unità operative. Il ricovero, a proposito, è definito admission, ed è pianificato dal bed manager, un infermiere che gestisce, appunto, le capacità ed i posti letto della struttura ospedaliera, di concerto con il nurse in charge del reparto. I pazienti più gravi dell’A&E sono invece ospitati in Resus (Resuscitation) Bay, prima di essere stabilizzati e trasferiti in ITU/ICU.
  • UCC: Urgent Care Center: è un servizio di urgenza/primo soccorso. Può essere dislocato sul territorio, oppure all’interno delle strutture ospedaliere. Può essere specialistico (ad esempio, relativo all’oftalmologia).
  • CCU: Cardiac Care Unit. È l’Unita’ Operativa di Cardiologia. Relativamente al servizio di Day Care, può prevedere lo staying overnight, ovvero l’admission notturna per l’osservazione dei parametri vitali, di pazienti provenienti dal cath lab, la nostrana cardiologia interventistica (ad esempio, pazienti cui è stato impiantato uno stent coronarico).
  • Nursing homes: sono paragonabili alle nostre RSA.
  • GP Practice/Surgery: è l’ambulatorio del medico di famiglia. È quasi sempre uno studio associato. Sono strettamente collegati ai Community services, i servizi territoriali, che comprendono anche la District Nurse, l’infermiera di famiglia.
  • Bay: è il “camerone”, ovvero una stanza in cui sono presenti da 4 a 6 pazienti (il cui bed space, il posto letto, può però essere chiuso con le curtains, le tendine, soprattutto nel momento in cui si dovranno praticare le cure igieniche al letto del paziente).
  • Side room: è una stanza più piccola, che ospita uno o due posti letto.
  • Sluice room: è la stanza dello sporco, dove vengono appunto lasciati i cesti della lavanderia sporca.
  • Cupboard: è qualunque tipo di armadio o armadietto, contenente qualunque cosa, dalla biancheria (sheets) e pigiami (gowns), ai farmaci, compresi gli stupefacenti (CD – controlled drugs).
  • Trolley: è qualunque tipo di carrello.

ATTIVITÀ ASSISTENZIALI

  • Admission: ne abbiamo già scritto, è il ricovero.
  • Discharge. È la dimissione, processo che, in UK, può essere estremamente delicato e protrarsi anche mesi. Quando il paziente presenta social needs, ovvero bisogni assistenziali che richiedono anche un supporto dei servizi sociali, può imfatti comportare la compilazione di una grande quantità di paperwork, di documentazione. Il discharge deve infatti essere safe, cioè non mettere a repentaglio la vita del paziente, che potrebbe magari non essere compliant con la terapia, e quindi aggravare la sua patologia, oppure, semplicemente, non essere più in grado di eseguire daily tasks elementari, cioè attività legate alla routine quotidiana (vestirsi, lavarsi, prepararsi i pasti). Il discharge può quindi prevedere un “semplice” referral, cioè una richiesta, alla District Nurse, per fornire un supporto alla compliance, vale a dire all’assunzione corretta della terapia, fino a prevedere un completo package of care, con il referral ai social workers, gli assistenti sociali appunto, ed il trasferimento in nursing home.
  • Handover: è la consegna, effettuata nel briefing mattutino, oppure al momento del trasferimento del paziente da un reparto all’altro.
  • File/records: è la cartella del paziente. Records è termine più ampio e ricomprende le documentazioni di ogni genere, cartacee e digitali, mentre il file è prevalentemente cartaceo. Cartella medica e infermieristica del paziente sono, in UK, unificate e contengono quindi le notes, cioè le annotazioni, di entrambe le figure professionali ( ma anche gli HCA possono apporre notes sul file, per il loro ambito di competenza!);
  • Care plan: è il piano assistenziale, anch’esso presente il cartella.
  • Drug chart: è il foglio della terapia.
  • Observation od obs: è l’osservazione dei parametri vitali che segue il modello NEWS2 (National Early Warning Score) e comprende temperature, SpO2 (saturazione, rilevata col pulsoxymeter), BP (blood pressure), HR (heart rate, la frequenza cardiaca), RR (respiratory rate), BM (da blood sugar monitoring), ovvero la glicemia, che in UK viene rilevata in mmol/l e prevede quindi che sia nella norma, se compresa in un range che va da 4 a 5.4 mmol/l per una persona non diabetica e a digiuno (fonte: http://www.diabetes.co.uk);
  • NBM: nil by mouth, ovvero divieto di assunzione di liquidi o cibi. Si riferisce, di solito, al digiuno preoperatorio, oppure, più in generale, al divieto di ingestione di liquidi o solidi, in relazione a specifiche patologie od interventi chirurgici;
  • Fluid balance chart/Stool chart (dalla Bristol stool chart): sono rispettivamente le scale di valutazione relative all’assunzione/eliminazione di fluidi ed alla quantità e qualità delle feci.
  • IV drip: è l’infusione endovenosa (intravenous) di fluidi o farmaci, effettuata agganciando (hanging) la bag (sacca) allo stand, cioè l’asta per la flebo;
  • Cannulation (non incannulation!): è la procedura che prevede l’incannulamento di una vena periferica. Come risaputo, occorrerà valutare il patrimonio venoso e verificare se eventualmente vi sia un difficult venous access, che potrebbe rendere le cose complicate. Si procederà poi ad indossare i gloves (guanti), a disinfettare la parte interessata con alcohol wipes o sterets (salviette alcoliche preconfezionate), ad introdurre la cannula ( classica espressione pronunciata da medici e infermieri per avvisare il paziente è: “sharp scratch!”, ovvero “abrasione da oggetto appuntito”, letteralmente!). Si procederà poi al flush, al lavaggio con saline solution o con water for injections e si chiuderà eventualmente l’accesso con un bung, un tappino rosso, dopo aver fissato la cannula con un dressing, un cerotto trasparente specifico (in UK, comunque, sono genericamente definite dressings tutte le medicazioni). L’ago (needle) andrà eliminato nell’apposito contenitore per oggetti pungenti e taglienti (sharps bin);
  • IM/SC/Topical: Intramuscular/subcutaneous/topical. Non serve aggiungere altro.
  • TTO: sono le To Take Out medications, ovvero i farmaci dispensati ai pazienti al momento del discharge. Talvolta vengono dispensate dagli stessi infermieri, che allora forniscono, oltre alla discharge letter, il foglio di dimissione, anche copia della prescription, con le medications e danno alcuni advice, suggerimenti, al paziente.
  • Rota (abbreviazione di rotation)/off duty: è il turno di lavoro. Off duty è l’espressione più formale. Viene ora in genere elaborato attraverso specifici software, per cui si parla di e-Rostering.
  • Day off/annual leave/bank holidays: sono rispettivamente i giorni liberi, i giorni di ferie, i giorni di festività annuale. Questi ultimi, se coincidono con una domenica, vengono spostati al lunedì successivo.

Come si può notare, molte delle denominazioni sono assolutamente esclusive della realtà sanitaria britannica.

Vi sono tuttavia due ambiti, nei quali i professionisti provenienti dai Paesi in cui si parla una lingua neolatina sono invece addirittura avvantaggiati, dal momento che l’inglese scientifico è strettamente imparentato al latino (ed al greco classico), molto più di quello colloquiale:

  • la farmacologia (non è difficile intuire cosa siano l’Aspirin, il Paracetamol o la Penicillin, non è vero?)
  • la denominazione delle patologie e delle loro caratteristiche descrittive; anzi, proprio per la tecnicita’ del linguaggio e dei termini impiegati, ha nel tempo portato a rendere comuni termini alternativi per indicare la stessa condizione o caratteristica, come nei seguenti casi:

– strabismus/squint;
– nausea/dizziness;
– oedema/swelling;
– abrasion/scratch.

Non è raro che, in questi casi, siano l’infermiere (od il medico) straniero a dover fornire spiegazioni sul significato di un termine inglese, seppur scientifico, ad un paziente inglese, e non il contrario!

La resistenza agli antibiotici ed il ruolo dell’infermiere – di Chiara Evangelisti.

Riuscite ad immaginare un futuro in cui l’assistenza sanitaria non possa più servirsi di antibiotici efficaci? In molti paesi del mondo questa è una prassi consolidata ma in altri, economicamente sviluppati come l’UK, è davvero difficile anche solo ipotizzare il poter trattare malattie ed infezioni in maniera diversa.

causes of

Gli antibiotici sono medicine utilizzate per prevenire e curare le infezioni batteriche. L’antibiotico resistenza si presenta quando il batterio muta per rispondere all’attacco delle medicine. Sono quindi i batteri (e non gli umani o gli animali) a diventare resistenti agli antibiotici. Questi batteri mutati e resistenti possono infettare uomini ed animali e le infezioni da essi causate sono molto più difficili da trattare. Quando un infezione non può essere trattata con un antibiotico di “prima linea”, si deve ricorrere a farmaci molto più costosi: ciò può condurre ad una reazione “a catena”, che porta ad un prolungamento della permanenza in ospedale, all’aumento della mortalità, e all’aumento dei costi per l’assistenza sanitaria, con conseguenze non solo sull’economia familiare, ma anche su quella della società intera. La donazione di organi, la chemioterapia ed altre operazioni chirurgiche (come il parto cesareo), possono diventare potenzialmente pericolose senza antibiotici efficaci a protezione dalle infezioni. L’antibiotico resistenza è considerata una delle più grandi minacce alla salute mondiale. Può colpire chiunque, a qualsiasi età e in qualsiasi paese. Si presenta come un processo naturale ma l’utilizzo incontrollato di antibiotici negli esseri umani e negli animali lo sta accelerando. Sempre un maggior numero di infezioni (come la pneumonia, la tubercolosi, la gonorrea e la salmonellosi) sono diventate sempre più difficili da combattere e gli antibiotici utilizzati sono sempre meno efficaci.

L’epoca considerata “d’oro” degli antibiotici (ovvero gli anni a cavallo tra il 1930 ed il 1960) è terminata nel momento stesso in cui gli scienziati hanno finito di creare varianti di vecchi farmaci per sviluppare l’azione contro i patogeni e si sono dedicati alla scoperta di nuovi antibiotici: questo non soltanto ha fatto impennare i costi di produzione e di ricerca ma ha anche acuito il divario tra i paesi ricchi (che pur potendo permetterseli, ha ormai esaurito quasi tutte le risorse in campo) e i paesi meno abbienti (i quali non possono neanche permettersi di usufruirne).

Attualmente sono stati isolati alcuni ceppi di batteri antibiotico resistenti (Mycobacterium tuberculosis,Neisseria gonorrhoeae, Enterococcus faecium, Staphylococcus aureus, Klebsiellapneumoniae, Acinetobacter baumannii, Pseudomonas aeruginosa, alcuni enterobatteri, la salmonella e la shigella) e la situazione sembra ormai fuori controllo. Nuovi meccanismi di resistenza stanno emergendo e si stanno espandendo globalmente, minacciando le nostre capacità di trattare le più comuni infezioni. Per questo negli ultimi decenni organizzazioni internazionali si sono dedicate alla divulgazione di informazioni su larga scala e campagne di sensibilizzazione. Nel 2015 il governo Britannico stanziò circa 10 milioni di sterline per la ricerca e sempre nello stesso anno, l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, invito’ il Ministro delle Scienze e Tecnologie a presentare, entro il mese di Febbraio, un piano nazionale per arginare il problema assieme alla Task Force.

Molte grandi compagnie farmaceutiche stanno correndo ai ripari ed in un mercato che attualmente vede 40 miliardi di dollari investiti ogni anno per la ricerca di nuovi antibiotici, si stanno affacciando nuove piccole compagnie per colmare i vari gap lasciati scoperti. Tuttavia rimangono ancora grandi disincentivi, quali ad esempio la difficoltà nel condurre trial clinici su larga scala per confrontare i risultati ottenuti su pazienti affetti da batteri antibiotico resistenti.

In un mondo dove gli antibiotici sono facilmente accessibili ed acquistabili per uomini ed animali anche senza una prescrizione medica, l’emergenza si sta aggravando. Allo stesso modo in paesi dove non esistono delle linee guida per trattamenti standard, gli antibiotici sono spesso prescritti anche dai veterinari in quantità che superano ben oltre il livello richiesto.

Alcune azioni possono essere intraprese su vari fronti per arginare il problema e limitarne gli effetti. In ambito organizzativo possono essere rafforzati piani di azione nazionali, politiche, programmi, investire nella ricerca, aumentare la sorveglianza, regolamentare l’utilizzo dei medicinali e rendere, quanto più possibile, le informazioni accessibili ad un grande numero di individui.

policy makers

how it spreads

Nell’industria agricola si può intervenire somministrando antibiotici esclusivamente sotto supervisione dei veterinari, preferire i vaccini o medicinali alternativi, migliorare la bio-sicurezza nelle fattorie e prevenire le infezioni attraverso un’igiene appropriata.

Anche noi, come individui, possiamo contribuire alla causa: dovremmo ricordarci di utilizzare gli antibiotici solo quando prescritti e necessari e di non usare le rimanenze di medicine già aperte e di non condividerle con altri. Il primo passo per prevenire le infezioni è modificare le nostre azioni quotidiane che partono da buona igiene delle mani, passano per la preparazione del cibo in condizioni igieniche, la pratica del sesso sicuro e l’utilizzo dei vaccini.

what you can do

L’Organizzazione Mondiale della Sanita’ (OMS) affronta in prima linea la lotta contro l’antibiotico resistenza. Un piano di ampio respiro, “The Global Action Plan on Antimicrobial resistanceè stato approvato nel Maggio del 2015 nel corso della World Health Assembly. Questo piano aveva 5 obiettivi strategici:

  1. Migliorare la consapevolezza e la comprensione della resistenza antimicrobica

  2. Rafforzare la sorveglianza e la ricerca

  3. Ridurre l’incidenza dell’infezione

  4. Ottimizzare l’uso di farmaci antimicrobici

  5. Assicurare investimenti sostenibili nel contrastare la resistenza antimicrobica.

La dichiarazione politica approvata dai capi di Stato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York nel settembre 2016 ha segnato l’impegno del mondo ad adottare un approccio ampio e coordinato per affrontare le cause profonde della resistenza antimicrobica in più settori, in particolare la salute umana, la salute degli animali e l’agricoltura. L’OMS sostiene gli Stati membri nello sviluppo di piani d’azione nazionali sulla resistenza antimicrobica, basati sul piano d’azione globale.

L’OMS ha inoltre condotto molteplici iniziative:

  • La settimana mondiale per la consapevolezza sugli antibiotici (“World Antibiotic Awareness Week”)Si tiene ogni novembre dal 2015 con il tema “Antibiotics: Handle with care“, la campagna globale pluriennale ha un volume crescente di attività nel corso della settimana della campagna stessa.

  • Il sistema globale di sorveglianza della resistenza antimicrobica (“The Global Antimicrobial Resistance Surveillance System” – GLASS)
    L’OMS supporta un approccio standardizzato alla raccolta, all’analisi e alla condivisione di dati relativi alla resistenza antimicrobica a livello globale per migliorare il processo decisionale, guidare l’azione locale, nazionale e regionale.

  • La “Global Antibiotic Research and Development Partnership” (GARDP)
    Un’ iniziativa congiunta tra OMS e la “
    Drugs for Neglected Diseases” (DNDi). La GARDP incoraggia la ricerca e lo sviluppo attraverso partnership pubblico-private. Entro il 2023, la partnership mira a sviluppare e fornire fino a quattro nuovi trattamenti, attraverso il miglioramento degli antibiotici esistenti e l’accelerazione dell’ingresso di nuovi farmaci antibiotici.

  • La “Interagency Coordination Group on Antimicrobial Resistance” (IACG)
    Il Segretario generale delle Nazioni Unite ha istituito l’IACG per migliorare il coordinamento tra le organizzazioni internazionali e assicurare un’azione globale efficace contro la minaccia alla sicurezza sanitaria. L’IACG è controllata in collaborazione con il segretario generale dell’ONU e dal direttore generale dell’OMS e comprende rappresentanti ad alto livello di agenzie delle Nazioni Unite, altre organizzazioni internazionali e singoli esperti in diversi settori

E noi, in quanto infermieri, come possiamo dare il nostro contributo?

Il Governo Inglese ha stanziato un piano d’azione strategico per combattere l’antibiotico resistenza per il quinquennio 2013-2018, allo scopo di migliorare la conoscenza e la comprensione della resistenza agli antibiotici, preservare l’efficacia dei trattamenti esistenti e stimolare lo sviluppo di nuovi antibiotici, diagnostica e nuove terapie.

La “Public Health England” ha dichiarato, nel 2017, che gli infermieri rivestono un ruolo chiave nella lotta contro la resistenza antibiotica. La campagna di sensibilizzazione “Keep Antibiotics Working” avviata il 23 ottobre dello stesso anno, corroborata da una intensa pubblicità’ anche alla radio, affermava “All nurses and midwives are on the frontline in the fight against antimicrobial resistance”, invitando i professionisti del settore sanitario a consigliare l’assunzione degli antibiotici prescritti dal proprio medico curante solo quando assolutamente necessario. Oltre alle pubblicità televisive e alla campagna sui social media, la “Public Health England” ha prodotto poster, volantini e presentazioni video da utilizzare negli ambulatori, nelle cliniche, nelle sale di attesa dei pazienti.

L’ultimo rapporto proveniente dall’ “English Surveillance Programme for Antimicrobial Utilisation and Resistance Report” (ESPAUR) ha evidenziato come 4 pazienti su 10 in UK colpiti da un’infezione da E. Coli non possano più essere trattati con l’antibiotico più comunemente usato negli ospedali. La “Public Health England” ha anche osservato come ogni anno circa 5.000 morti sono causate dalla resistenza agli antibiotici e che in poco più di 30 anni questa potrebbe essere letale più di quanto lo siano diabete e cancro messi assieme.

La professoressa Viv Bennett, chief nurse alla “Public Health England” ha dichiarato: ”Come custodi di antibiotici, infermieri e ostetriche possono aiutare a combattere la crescente minaccia della resistenza antimicrobica”. Questa stessa osservazione è sostenuta da Rose Gallagher, professional lead per la prevenzione ed il controllo delle infezioni presso il Royal College of Nursing. “La resistenza antimicrobica” ella afferma “ è una minaccia globale a lungo termine e questa campagna è un passo importante nella battaglia per proteggere la salute della nostra nazione, poiché rischiamo che anche le malattie semplici diventino persino fatali se il problema non viene risolto”.

what health workers can do

Sempre in UK, il Dr. Colin Macduff, membro del Royal College of Nursing, sta guidando un progetto, il “Re-Envisaging Infection Practice Ecologies in Nursing” (RIPEN), assieme ai suoi colleghi, con lo scopo di sensibilizzare e coinvolgere con un approccio innovativo, anche altre discipline (come quelle umanistiche), combinando i dati scientifici sul rischio di infezione con quelli che gravitano attorno al piano clinico, permettendo così di “cogliere l’invisibile”.

Il progetto RIPEN sta sviluppando e ricercando le diverse metodologie in cui le arti, il design, la storia, il teatro, in collaborazione con l’infermieristica e la ricerca, possono collaborare sinergicamente per risolvere il problema. Due workshop (uno a Glasgow, l’altro a Londra) sono in programma per discutere e confrontarsi su come migliorare la pratica e come affrontare la minaccia di un prossimo futuro privo di antibiotici efficaci, un futuro quest’ultimo, a parere del Dr. Macduff, che spesso viene negato dagli stessi operatori sanitari, forse perché troppo scoraggiante. L’ultima fase del RIPEN sarà costituito da un Policy Lab Event, dove i vari team di ricerca presenteranno i loro progetti e i loro costi ed implicazioni.

Per maggiori informazioni:

Informazioni sul progetto RIPEN, dettagli e come partecipare ai workshop, visitare www.ripen.org.uk


WHO – Antibiotic Resistance :
http://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/antibiotic-resistance

Nurses Keyroles: https://www.nursingtimes.net/news/primary-care/nurses-urged-to-play-key-role-in-antibiotic-resistance-awareness/7021765.article

Nathan, C. & Cars, O. (2014) “Antibiotic Resistance: Problems, Progress and Prospects”, The New England Journal of Medicine, 10 (6), pp. 1761-1763

Intervista a Nicolò Mattana, infermiere a Londra e candidato per le elezioni OPI di Venezia.

Raccontaci brevemente di te.

Mi chiamo Nicolò Mattana, ho 25 anni, mi sono laureato presso l’Università di Padova nel 2014 e dal 2015 lavoro come infermiere in Inghilterra.
Ho iniziato a Preston, nel nord dell’Inghilterra, ma ora lavoro presso il St Mary’s Hospital di Londra, come senior staff nurse in A&E.
Ho sempre avuto la passione per la medicina umanitaria; seguendo proprio questa passione, mi sono recato come infermiere volontario in Nepal, Ghana e Uganda (per la crisi umanitaria del Sud Sudan).
La mia seconda grande passione è il volo ed è per questo che ho completato un postgraduate course sulla medicina d’aviazione, che mi consente di lavorare come infermiere a bordo degli aerei.

Perché hai deciso di candidarti per l’O.P.I. di Venezia?

La mia esperienza in Inghilterra mi ha permesso di vedere un nuovo tipo di infermieristica, basata sul riconoscimento delle competenze avanzate, sulla progressione di carriera ma soprattutto sul riconoscimento della professione in generale.
Questa nuova visione mi ha spinto a candidarmi all’elezioni dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Venezia, perché credo fortemente nella nostra figura professionale e voglio dare il mio contributo alla crescita dell’infermiere come professionista della sanità.
L’Ordine di Venezia, nella persona del suo ex Presidente Luigino Schiavon, della cui lista faccio parte, ha sempre avuto una particolare attenzione per gli infermieri partiti per l’estero; voglio perciò continuare a impegnarmi per la loro tutela, ma con un occhio anche a coloro che sono ancora in Italia e che intendono emigrare.

– Nel caso in cui fossi eletto, che obiettivi vorresti raggiungere, ed attraverso quali iniziative?

Prima di tutto, il riconoscimento delle competenze avanzate, che nella mia visione è una conditio sine qua non per la progressione di carriera. Collegata a questo, c’è anche tutta una parte di informazione sui nuovi modelli assistenziali che ho avuto modo di apprezzare in Inghilterra e che credo sarebbe molto interessante affrontare con i miei colleghi in Italia.
Mi piacerebbe, a tal proposito, poter creare giornate informative per sensibilizzare i colleghi ed anche i cittadini sul ruolo dell’infermiere in UK e sulle iniziative che la categoria sta adottando, per valorizzare la figura primaria dell’infermiere nel contesto sanitario.

– Quali sono i tuoi rapporti con la comunità infermieristica italiana in UK?

Essere un italiano che lavora in un Paese estero mi ha fatto desiderare di essere parte attiva della comunità: infatti, assieme a Luigi D’Onofrio e ad altri colleghi sto partecipando alla costituzione della Italian Nurses Society, associazione che si pone come obiettivo il supporto dei colleghi italiani che lavorano in UK.
A breve ci saranno tante novità da raccontare e grandi eventi a cui partecipare, ma per ora non voglio anticipare niente.
Desidero però che il mio impegno sia sempre bidirezionale: voglio infatti riportare in Italia tutte le esperienze che ho appreso in UK, ma voglio anche continuare a supportare ed aiutare i ragazzi che, come me, hanno deciso di intraprendere una carriera all’estero.

– Classica domanda di chiusura di un’intervista: quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Per ora sto molto bene nella mia sede di lavoro, la mia posizione di senior staff nurse in uno dei più grandi ospedali di Inghilterra mi piace e sento che sto crescendo come persona e come professionista.
Ci sono tanti progetti a cui sto lavorando e spero che presto diano i loro frutti.
Voglio solo invitare tutti a votare per le elezioni O.P.I. di Venezia, perché il voto è il primo passo verso il cambiamento.
Spero di vedervi numerosi. E se passate per Londra, scrivetemi.

Gli indicatori di qualità in A&E.

Gli indicatori di qualità clinica in A&E sono stati introdotti nel 2011 dal Department of Health, allo scopo di fornire una visione bilanciata ed onnicomprensiva sulla qualità di cura nei servizi di emergenza, includendo gli outcomes, l’efficacia clinica, la sicurezza e l’esperienza, tanto quanto la tempestività e superando il focus isolato sulla rapidità di cura, ovvero sul target delle 4 ore, originariamente introdotto nel 2004.
Nessuno di loro viene quindi preso in considerazione singolarmente, ma nel loro insieme costituiscono un barometro della qualita’ dei servizi di A&E in Inghilterra, che sono suddivisi in tre tipologie:

  1. Type 1 (Major);
  2. Type 2 (Specialist):
  3. Type 3 (Minor Injury Unites and Walk-in Centres).

Gli indicatori vengono inoltre valutati congiuntamente ai NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence) Quality Standards ed agli NHS Outcomes Framework, per dare un panorama globale della qualità dell’emergency care. Le statistiche risultanti dall’impiego degli indicatori vengono pubblicate regolarmente sui siti web dei Trust ed esposte collettivamente sul sito dell’NHS Digital, per consentire all’opinione pubblica di venirne a conoscenza.
Il Department of Health ha individuate nel complesso 8 indicatori, che esamineremo nel dettaglio.

1) Ambulatory care, ovvero numero di admission per condizioni gestibili in sede extraospedaliera, per condizioni come la Deep Vein Trombosis (DVT) e e la cellulitis.

Le evidenze scientifiche suggeriscono infatti che una elevata percentuale di casi possono essere trattati in sede ambulatoriale, nel 60/90% dei casi di cellulitis e nel 90% in quelli di DVT.

2) Tasso di re-attendance in A&E entro 7 giorni da quello precedente.

Opinioni di esperti suggeriscono che si può considerare accettabile un tasso inferiore al 5%, ma uno inferiore all’1% potrebbe indicare un’avversione al rischio, ovvero un eccessivo respingimento.

3) Tempo totale speso in A&E (dal momento della registrazione), per pazienti ricoverati e non.
E’ probabilmente l’indicatore più famoso. Molti giornali, perfino i tabloid, pubblicano articoli ricordando infatti che il tempo di attesa massimo non deve superare le 4 ore, prima dell’accettazione o del ricovero; ciò deve verificarsi nel 95% dei pazienti che accedono ai servizi di emergency care in un determinato giorno. La singola attesa più lunga, inoltre, non deve superare le 6 ore, non essendovi evidenze che giustifichino una permanenza ulteriormente prolungata, mentre la letteratura internazionale ha dimostrato che il rischio di adverse outcomes aumenta se la durata è compresa tra le 4 e le 6 ore.

4) Percentuale di pazienti che abbandonano l’A&E dopo essere stati ricevuti e registrati, ma prima di essere visti da un clinical decision maker (in genere, il triagista).

Anche questo tasso dovrebbe rimanere inferiore al 5%, mentre livelli più alti riflettono una insoddisfazione dei pazienti, dovuta alla carenza organizzativa.

5) Feedback sul servizio da parte dei pazienti.

Chiunque lavori in UK conosce il Friends and Family Test, ovvero la scheda di feedback che viene rilasciata ad ogni paziente e/o ai loro carers e che dovrebbe essere compilata dal maggior numero possibile di loro, in modo da ricevere descrizioni narrative dell’esperienza vissuta con i servizi di emergency care. Ogni tre mesi (quarterly), ogni Trust dovrebbe divulgare un rapporto sulla patient experience e il rapport medesimo dovrebbe costituire elemento per l’adozione di decisioni cliniche.

6) Tempo trascorso dall’arrivo all’assessment iniziale.

Questo indicatore si applica esclusivamente agli arrivi in ambulanza, ma dovrebbe applicarsi anche ai major cases, per i quali, tuttavia, non esiste ancora una definizione specifica. Buona pratica consiste nell’effettuare l’assessment entro 20 minuti dall’arrivo. Per arrivo si intende il momento in cui si riceve l’handover, o comunque 15 minuti dopo l’arrivo dell’ambulanza in A&E. In pratica, questo significa che il paziente deve essere valutato entro 35 minuti dal momento in cui l’ambulanza si ferma all’ingresso dell’Accident and Emergency Department. Una percentuale del 95% dei casi esaminati oltre i 15 minuti puo’ tuttavia suggerire la necessità di operare dei miglioramenti.

7) Tempo dall’arrivo fino all’esame da parte di un decision making clinician (ovvero un professionista che puo’ stabilire un management plan ed un discharge).

Il tempo dall’inizio del trattamento dovrebbe essere minimizzato, ma senza pregiudicare gli altri indicatori. Esperte opinioni cliniche suggeriscono che I pazienti dovrebbero essere esaminati da un decision maker entro 60 minuti dall’arrivo, ma questa tempistica potrebbe essere lunga per casi piu’ gravi, come sepsi, stroke, infarto miocardico.

8) Consultant sign-off, ovvero percentuale di pazienti appartenenti a determinati gruppi ad alto rischio (es. Adulti con dolore toracico non traumatico, bambini di età inferiore ad un anno febbrili) che si presentano negli A&E Type 1 e 2 e che vengono esaminati da un emergency medicine consultant prima del discharge.

Opinioni esperte indicano che tutti i pazienti che si presentano con queste sintomatologie dovrebbero essere esaminati da un consultant. Nei fatti, questo può risultare particolarmente complicato, per cui è comunque accettabile un assessment da parte di un senior trainee (ST4 o superiore) o da personale con sufficiente esperienza nei servizi di emergency medicine, sebbene questo debba avvenire in circostanze eccezionali, allo scopo di ridurre al minimo i rischi per i pazienti.

Gli indicatori precedentemente indicati stanno comunque costituendo una sfida sempre più difficile da fronteggiare per gli A&E dell’NHS, tanto che, in relazione al famoso limite di permanenza delle 4 ore, la barra fu inizialmente fissata al 98% dei casi, per scendere poi al 95% nel 2016.

Ultimamente, il Department of Health, dietro pressioni dei Trust, sta pianificando di abbassarla ulteriormente al 90%.

Lettera aperta degli infermieri italiani nel Regno Unito all’Ordine delle Professioni Infermieristiche.

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Londra 16 marzo 2018

alla Presidente Dott. Ssa Barbara Mangiacavalli

 

al Comitato centrale

ai Presidenti provinciali

Ordine delle Professioni Infermieristiche

Gentili Colleghi,

chi Vi scrive sono i figli di un Ordine minore.

Quelli che hanno fatto le valigie, gli emigrati, per alcuni i traditori della Patria.

Noi siamo, in particolare, gli infermieri italiani emigrati in Gran Bretagna, ma siamo sicuri di non peccare di superbia, affermando che le nostre rivendicazioni sono le stesse dei colleghi che vivono e lavorano in Svizzera, Germania ed in molti altri Paesi d’Europa e del mondo.

Siamo i figli di una diaspora che molti noi hanno deciso liberamente, molti altri forzatamente, come conseguenza di anni di disoccupazioni, di contratti precari o di lavoro dipendente, simulati da partita IVA, di contenziosi con datori di lavoro che non hanno erogato mesi di stipendi.

Una diaspora che è avvenuta sotto i Vostri occhi e, purtroppo, nel Vostro silenzio, soprattutto negli ultimi cinque anni.

Siamo tanti, migliaia. 2.600 di noi sono alle dipendenze del sistema sanitario pubblico più antico, grande e celebre al mondo, il National Health Service inglese, mentre molti altri prestano la loro attività nel settore privato.

Dopo aver lasciato la nostra terra ed i nostri affetti ed aver superato un periodo di ambientamento, molti di noi, tra mille difficoltà e sacrifici, hanno iniziato a compiere progressi significativi nelle loro carriere professionali.

La nostra comunità annovera già docenti, coordinatori di Dipartimento, professionisti con competenze così avanzate da essere in grado di eseguire, in autonomia, procedure chirurgiche riservate in Italia ai soli medici. In molti hanno conseguito titoli di studio post laurea e tutti stanno accumulando un incredibile patrimonio di conoscenze, in un contesto organizzativo estremamente vicino, nei principi costituenti, al Servizio Sanitario Nazionale.

Questo fenomeno, tuttavia, continua ad avvenire nel silenzio delle istituzioni italiane e del neonato Ordine.

Il recente Congresso nazionale della Fnopi, per esempio, ci ha praticamente ignorati.

Ci siamo sentiti troppo spesso dimenticati due volte, prima e dopo essere partiti.

Chi di noi rientra in Italia lo fa in sordina, per ragioni familiari, o più semplicemente perché è stanco di vivere lontano da casa.

Nessuno di noi si attende di essere accolto da un tappeto rosso, ma di certo non torniamo perché ci vengono proposte condizioni di lavoro migliori od avanzamenti di carriera.

Sappiamo, invece, che ci toccherebbe fare molti passi indietro.

Chi rientra è atteso, ancora una volta, da contratti di lavoro temporanei; nel migliore dei casi, da un posto in una struttura pubblica, dopo aver superato però il calderone di una selezione, che i Padri Costituenti concepirono per scegliere imparzialmente i più meritevoli e che oggi, invece, dimentica colpevolmente proprio la sua ragione istitutiva.

Perché gli infermieri che emigrano all’estero possono ottenere il riconoscimento degli anni di servizio solo passando attraverso una procedura lunga e complessa, spesso non in linea con i tempi e le esigenze di un candidato ad un concorso.

Perché i titoli di studio conseguiti all’estero non vengono riconosciuti, se non genericamente, all’atto della selezione, e talora vengono messi da parte all’atto della nomina, quando ci ritrova assegnati ad una Unità Operativa o ad una branca clinica completamente diversi da quella dove si sono maturati anni di lavoro e di esperienza.

Cosa aspettarsi, d’altronde, da un Paese che nemmeno con la bozza del nuovo contratto collettivo offre alla categoria un adeguato riconoscimento delle competenze avanzate e specialistiche?

Specializzazioni, dirigenza, management, sono parole, concetti, obiettivi di carriera che un nurse inglese vive nella sua operatività quotidiana.

Quando un infermiere italiano in Inghilterra si abitua a questa realtà, diventa poi difficile capire perché il medesimo riconoscimento non avvenga in Italia.

La comunità infermieristica italiana nel Regno Unito ha vissuto negli ultimi anni il fenomeno dell’emigrazione, in linea di massima, come necessità.

Ha scoperto poi le opportunità che la sanità inglese offre agli infermieri, ha sperimentato sulla propria pelle un altro modello di sanità, un altro modello di nursing, ha iniziato a coglierne i frutti e desidera ora mostrarli ai colleghi in Italia, condividendo le competenze e le esperienze maturate.

E’ per questa ragione che abbiamo deciso di superare la solitudine nella quale abbiamo vissuto e di organizzarci, autonomamente e spontaneamente, lontano da chi finora ci ha trascurato, ma senza dimenticare mai chi sono gli interlocutori istituzionali nella nostra Patria.

Non sono infatti le istituzioni che creano le comunità, ma il contrario: è esattamente questo che sta avvenendo nel Regno Unito, dove, per ora ancora solo sui social media, le migliaia di infermieri sparpagliati sul territorio britannico stanno iniziando a prendere forma e consistenza di una comunità professionale, che interagisce vivacemente e fonde le proprie esperienze, in un processo finalizzato alla crescita comune e ad obiettivi condivisi.

Chi Vi scrive rappresenta un gruppo che riunisce, ad oggi, oltre 400 infermieri italiani in Gran Bretagna e che ha assunto la denominazione di Italian Nurses Society, ispirandosi all’antico modello di cooperazione ed autotutela della società di mutuo soccorso.

Abbiamo due soli mesi di vita e la nostra voce è quella di una frazione dell’intera comunità, ma ci proponiamo di rappresentarla in futuro nella sua interezza, diventando l’associazione di riferimento della comunità infermieristica italiana presente sul territorio britannico.

Cercheremo, se necessario, il gemellaggio anche con altri colleghi, qualora intendano avviare analoghe iniziative sul territorio britannico: a differenza di quello che vediamo accadere in Italia, dove la rivalità e la contrapposizione stanno rendendo la categoria sempre più divisa e debole, l’isolamento e la lontananza ci hanno fatto comprendere l’importanza dell’unità e della solidarietà, nel segno dell’appartenenza alla medesima categoria professionale.

Lo scopo di questa lettera aperta, comunque, non è solo quello di comunicarVi la “lieta novella” della nascita di una comunità di infermieri italiani nel Regno Unito, ma anche di annunciarVi che, se finora non siamo stati ascoltati, saremo da oggi noi a far sentire la nostra voce, in modo sempre più pressante, individuando in Voi e nell’Ordine delle professioni infermieristiche il nostro esclusivo interlocutore istituzionale in Italia.

E’ nostra intenzione, infatti, avanzare una serie di richieste finalizzate ad un futuro, effettivo riconoscimento normativo delle competenze maturate dagli infermieri presenti in Gran Bretagna, che passano dal riconoscimento automatico, in sede concorsuale, degli anni di servizio e dei titoli di studio conseguiti, ma anche di creare un ideale ponte, foriero di scambi e di opportunità professionali, tra la comunità infermieristica italiana ed i suoi figli, emigrati in Gran Bretagna e, tramite loro, con i colleghi inglesi.

Queste istanze sono irrealizzabili, in assenza di un dialogo con l’Ordine. Esso si fonda, peraltro, sulla premessa di un riconoscimento ufficiale, in quanto associazione di rappresentanza degli infermieri italiani nel Regno Unito, che con questa lettera Vi chiediamo per la prima volta ed in via ufficiosa.

Siamo convinti che i nostri propositi siano ambiziosi e di non semplice realizzazione; abbiamo piena consapevolezza che i problemi che oggi la categoria affronta sono gli stessi, se non più gravi, di quelli che costrinsero molti di noi a preparare i bagagli.

Siamo altresì certi, tuttavia, che, se le nostre rivendicazioni dovessero oggi rimanere inascoltate, non potrete domani non sentire la voce di migliaia di infermieri, che magari non desiderano più tornare in Patria, ma non hanno dimenticato i loro colleghi.

L’apertura ad un confronto internazionale evidenzierà che un altro modello di nursing, in cui l’infermiere riveste un ruolo di protagonista nella definizione dei modelli organizzativi dell’assistenza e delle politiche sanitarie in generale, è possibile.

Avete già perso la nostra professionalità e le nostre capacità.

Vi chiediamo di non perdere, ora, l’ulteriore contributo che veniamo ad offrirVi.

Con osservanza

Luigi D’Onofrio

Giuseppe Porfido

Gianluca Adinolfi

Marta Eleonora Marchetti

Felicia Livrieri

Sergio Maria Riggi

e tutti gli infermieri della Italian Nurses Society

Intervista a Filippo Carretta, da infermiere a massaggiatore nel Regno Unito.

Molto spesso arriviamo ad un punto, nella nostra vita lavorativa, in cui non proviamo più soddisfazione in ciò che facciamo ed iniziamo a chiederci se quella scelta sia ancora la strada giusta.

Alcuni di noi hanno bisogno solo di staccare un po’ la spina, altri di cambiare semplicemente ambiente, altri ancora voltano pagina e iniziano un nuovo capitolo.

A tal proposito, posto qui un’intervista della collega Felicia Livrieri ad un suo amico, Filippo Carretta, detto Pippo, un infermiere pugliese che, dopo aver deciso di espatriare in UK ed aver lavorato nell’NHS, ha scelto di dare l’ennesima svolta radicale alla sua vita, intraprendendo una nuova carriera, in un settore alternativo e complementare rispetto a quello della sanità “tradizionale”.

filippo carretta

“Cosa ti ha fatto maturare l’idea di svolgere la tua professione come infermiere all’estero e soprattutto in UK?”

L’UK”…. – sorride e riprende – “E’ stata più una conseguenza che una decisione.

La scelta dell’UK è stata la più facile. Mi spiego meglio. Finiti gli studi in Italia, ho iniziato a guardarmi intorno, le possibilità erano molte, non solo come infermiere. In Puglia lavoravo nel mondo della radiofonia, all’interno di radio e tv regionali e allo stesso tempo lavoravo per una compagnia privata di ambulanze. C’era abbondanza di lavoro, ma ciò che scarseggiava erano gli stipendi, si lavorava quasi gratis con la scusa di “far esperienza”.

Ciò mi ha fatto pensare che dovevo guardarmi intorno, fuori dalla penisola italiana. Mi sono chiesto: se devo fare volontariato vado in Africa, se devo lavorare devo essere retribuito. Non ti nascondo che ci ho pensato e ho cercato posti in Africa dove fare volontariato, ma la vita mi ha portato verso una ricerca più “rapida”, “facile” e sensata, quella di cercare lavoro all’interno dell’Europa. Le nazioni che offrivano più opportunità come infermiere erano Regno Unito, Germania e Svizzera.

Partiamo dal presupposto che non ero attratto da nessuna di queste tre nazioni. La scelta più facile è stata l’UK per la lingua (tra inglese e tedesco preferivo imparare l’inglese) e per essere Londra una città multiculturale. Era il 2015, quando ho provato un colloquio a Roma per il West Middlesex University Hospital. Sono stato assunto e nel giro di pochi mesi mi sono trasferito qui, dove ho iniziato a lavorare con l’NHS fino alla metà del 2017”.

“Dopo quanto tempo hai sentito la voglia di cambiare lavoro, aprendoti a nuovi orizzonti; soprattutto, come mai hai compiuto questa scelta?”

Da subito, mi sono reso conto che stavo rivestendo un ruolo all’interno di un sistema che non condivido. Uscito dall’Università, avevo la carica e la voglia di fare del bene, rendendomi utile per gli altri. In ospedale, nei reparti di degenza, si cerca di rimettere in salute il paziente spegnendo i sintomi. Io però sono del parere che i sintomi sono segnali che il nostro corpo invia e noi dobbiamo interpretare per capire cosa non va e capire su cosa agire. Spegnere o trattare il sintomo non cura a mio avviso la malattia.

In ospedale mi scontravo con una realtà che si opponeva a ciò in cui credo e ciò mi ha messo di fronte ad un bivio: continuare nella professione infermieristica, indirizzandomi magari verso l’emergenza, oppure aprirmi a nuovi orizzonti. Essendo interessato alla cura della persona nella sua interezza, mi sono chiesto: cosa potrebbe promuovere la salute e il benessere?

Le risposte sono state semplici e rapide: basta prendersi cura del nostro corpo, ascoltando ciò che ci dice ed entrando in relazione con noi stessi. Possiamo prevenire una malattia partendo da una corretta alimentazione, stile di vita, esercizio fisico, dalla cura di se stessi. Questa consapevolezza mi ha portato a coltivare molte passioni. Da qui ho scelto di iniziare una nuova professione: il massaggiatore, in inglese massage therapist o masseur.”

“Che formazione hai dovuto svolgere per intraprendere questo nuovo ruolo? Che tipo di massaggi esegui? La tua figura è regolata giuridicamente da un’istituzione, simile all’NMC?”

Inizialmente ho seguito un corso di studi di un anno, nel quale ho studiato principalmente anatomia, fisiologia, patologia (materie che avevo già seguito, ovviamente, durante il mio corso universitario di infermieristica). Alla teoria seguiva poi una sessione pratica.

Al termine di questo corso ho ottenuto il mio diploma da massaggiatore e ho continuato i miei studi in Thailandia ed in un’università a Londra. In realtà, non si finisce mai di studiare.

Corso dopo corso, gli studi sono costanti. La mia figura non è regolata da istituzioni come l’NMC ed io lavoro come self employer, freelance, con una assicurazione personale.

Eseguo massaggi di ogni tipo: sportivo, olistico, tailandese, rilassante, energizzante, riflessologico”.

“È stato facile trovare lavoro in questa nuova realtà?”

Ci vuole sempre il “lato B” nella vita, anche in questo caso…

Mettersi alla ricerca di un lavoro è stato ovviamente più facile qui a Londra, che in Italia.

Nel Regno Unito è stato più semplice anche fare esperienza: infatti, in pochi anni ho massaggiato oltre 2000 persone. Per la maggior parte del tempo ho dovuto lavorare come self-employer.

E’ meno semplice rispetto al lavoro da dipendente, ma rappresenta una sfida che decisamente ti spinge a risultati migliori e ti apre opportunità imprenditoriali, partendo dal basso per poi crescere grazie all’impegno, alla dedizione ed al…famoso “lato B”, appunto”.

“Come si svolge la tua giornata tipo, che orari fai e quali sono le sfide che incontri in questo lavoro?”

La mia giornata tipo è molto variabile. Ci sono stati periodi in cui lavoravo in hotel, altri in cui le agenzie con cui collaboravo mi mandavano a domicilio dei clienti, altri ancora in cui lavoravo in più posti: clinica di medicina Cinese, studio chiropratico, salone di bellezza.

Al momento tendo a mantenere rapporti stabili con la mia clientela privata, esco con la macchina e raggiungo la casa del primo cliente, controllo il telefono e riparto per la chiamata successiva. Promuovo inoltre la mia attività tramite una pagina Internet”.

“E’ soddisfacente la retribuzione che questo lavoro offre?”

Ride… “Guadagno da zero a 250£ al giorno: non ci sono regole, dipende dal numero di clienti che hai e dal periodo. Bisogna crearsi la clientela, si parte da cifre meno soddisfacenti per migliorare col tempo. Questo succede quando lavori in proprio, le tue entrate sono variabili”.

“C’è chi parla di massaggi come terapia alternativa, cosa ne pensi tu a riguardo e quali sono le tue più grandi soddisfazioni lavorative?

Massaggio come terapia, decisamente! Terapia, che nella mia mente non è associata più alla “pillolina”. Il massaggio è un mezzo per alleviare la tensione e lo stress, al quale – ricordiamo – sono riconducibili molte patologie. E’ un’ottima terapia, un ottimo modo per rilassarsi, per provare benessere e per entrare in sintonia con noi stessi”.

“Qualche giorno fa mi hai parlato della “continua evoluzione” della tua professione, raccontaci un po’ le opportunità che ti si sono aperte”.

Tutto è in continua evoluzione. Dal cambiamento scaturiscono nuove opportunità, che sta a noi cogliere. Incontrare persone interessanti, persone che ci trasmettono la giusta energia, situazioni che ci permettono di fantasticare, ideare, sognare e progettare qualcosa. Ho tanti progetti; sto lavorando ad uno sulla creazione di “aree di benessere”, frequentate da persone che vivono in contatto col loro corpo. E’ ancora presto per lanciare questo nuovo business, ma si inizia da piccoli passi, piccole trattative che crescono e alimentano i sogni. Non esiste ancora quello che voglio creare, quindi posso solo dirti che l’idea è di abbracciare varie realtà: spa, centro meditazione…. diciamo un posto per “ritiri all’insegna del benessere”. Quindi l’evoluzione continua, speriamo sempre.

“Ti ritieni soddisfatto di questa scelta e rimpiangi mai la tua vecchia professione?”

Mi ritengo decisamente soddisfatto. Come dicevo prima, è un’evoluzione, sapevo che ciò che avevo fatto era un processo per arrivare al punto dove sono ora; tuttora penso che questo processo continuerà e mi porterà ancora non so dove. Non tornerei indietro, credo in ciò che sto facendo, non ha senso fare passi indietro, si potrebbe, ma la natura umana ci spinge sempre a provare cose nuove e andare avanti. Tornassi indietro, lo rifarei sicuramente.

“Che consiglio ti senti di dare a chi si sente insoddisfatto della professione infermieristica?”

Cambiare! Senza timori e paure, anche se hai una laurea ed hai speso anni per arrivare dove sei, bisogna ricordare che tutto serve a qualcosa e ci ha insegnato qualcosa, sicuramente non saremmo le persone che siamo senza ciò, quindi dobbiamo ringraziare e andare avanti. Ci vuole solo coraggio. Coraggio e voglia di andare avanti”.

Grazie mille Pippo, per aver condiviso con noi la tua esperienza! Ancora tanti auguri per un buon proseguimento della tua carriera.