Infermieri italiani in UK: è finita un’epoca?

La Brexit ha segnato l’inizio di un isolazionismo nazionale che verrà ricordato nei libri di storia, per le sue devastanti ripercussioni sociali, culturali ed economici, destinate ad esplicarsi ancora per molti anni a venire.

Per avere una sommaria percezione delle infinite barriere causate dall’uscita britannica dall’Unione Europea, basti pensare che – solo 5 anni fa! – era possibile recarsi in Gran Bretagna da uno degli altri 26 Paesi dell’UE liberamente, indipendentemente dalla ragione del viaggio. La permanenza, a Londra od in altre località, era subordinata solo alla propria capacità di sostenere le spese di vitto ed alloggio.

Nel 2024, al contrario, una semplice vacanza, un viaggio d’affari, un trasferimento per periodo di studio non superiore a 6 mesi sono consentiti solo dietro rilascio di un visto elettronico a pagamento (l’ETA UK), mentre la possibilità di risiedere e lavorare richiede il possesso di una Sponsorship, emessa dal futuro datore di lavoro.

Chi viveva nel Regno Unito già prima della Brexit ha invece dovuto richiedere una sorta di permesso di soggiorno permanente, secondo le procedure indicate nel Settlement Scheme.

Le nuove ed impreviste lungaggini burocratiche collegate alla Brexit; un generale sentimento di disillusione e delusione rispetto ad una terra prima percepita come accogliente; condizioni di vita peggiorate, con salari in modesto aumento, rispetto ad un costo della vita in crescita esponenziale, specie nelle grandi città; ma anche le nuove opportunità di lavoro nei Paesi di origine – a seguito della pandemia del Covid-19 – hanno generato una tempesta perfetta, spingendo al rimpatrio migliaia di professionisti europei, soprattutto della sanità.

I medici ed infermieri spagnoli, italiani, portoghesi, greci ancora presenti in UK sono ormai una frazione di quelli giunti nel quinquennio 2012/2017: un’epoca d’oro, che personalmente considero irripetibile.

Nei giorni scorsi, tuttavia, le principali testate giornalistiche ed i mass media in generale hanno diffuso una notizia che sembrerebbe mettere una pietra tombale sulle opportunità lavorative per gli infermieri italiani nel Regno Unito.

Il dissennato oscurantismo della classe dirigente Tory al Governo, ossessionata dall’obiettivo del recupero di un fantomatico “controllo” del Paese – che suona piuttosto come una brama di accaparramento e di concentrazione delle risorse economiche in capo ad una élite plutocratica – ha partorito infatti l’ennesimo abominio normativo.

Le nuove regole sull’immigrazione di lavoratori stranieri nel Regno Unito, fortemente volute dal premier Rishi Sunak ed entrate in vigore lo scorso 4 Aprile, impongono infatti una soglia minima annua di reddito pari a 38.700 sterline (poco meno di 45.000 euro) per lavorare e risiedere Oltremanica.

Un limite piuttosto elevato e molto restrittivo, insomma, che segna uno stop definitivo ai leggendari giovani lavapiatti che provavano ad imparare un po’ di inglese nelle cucine di qualche ristorante londinese, ma anche ai molti altri addetti alla ristorazione (cuochi, baristi, camerieri), al turismo, nonché ai numerosissimi stranieri impiegati nei settori del marketing, della comunicazione, della pubblicità, dell’informatica, della finanza, da sempre cruciali per la sopravvivenza della capitale.

Ma per quanto riguarda gli infermieri?

Secondo alcune testate – come “Il Messaggero” -, la soglia rappresenterebbe una barriera insormontabile anche per loro, oltre che per tutti i professionisti della sanità, con la sola eccezione di alcuni medici: lo stipendio di un infermiere (ma anche di un fisioterapista, di un logopedista, ecc.) neoassunto in un ospedale pubblico, in effetti, supera di poco le 28.000 sterline.

Possibile che la Gran Bretagna si sia privata in modo così brutale della possibilità di tamponare le terribili carenze organiche, che affliggono sempre più il National Health Service?

Basta un semplice approfondimento delle fonti governative, per capire che le cose non stanno affatto così: i lavoratori della sanità seguono infatti un percorso di immigrazione preferenziale, che si conclude con il rilascio dell’Health and Care Visa. Anche in questo caso, dallo scorso Marzo la soglia è stata elevata; tuttavia, nell’ipotesi che il ruolo sia inquadrato nei livelli della contrattazione collettiva pubblica (NHS bands), essa è di “sole” 23.200 sterline (fonte: NHS Managers).

Infermieri ed ostetriche, purché in possesso della Sponsorship di un datore di lavoro (come un Trust, cioè un’azienda ospedaliera) potranno quindi recarsi ancora in Gran Bretagna, anche se neolaureati. Negli altri casi, il limite rimane invece quello generale di 38.700 sterline, che taglierà fuori migliaia di health care assistants (paragonabili ai nostri Oss) e di care workers (più o meno badanti qualificati).

Con tutte queste restrizioni, vale ancora la pena trasferirsi a Londra, Manchester o Liverpool?

La mia risposta – a patto che si disponga però delle indispensabili competenze linguistiche – è sempre positiva: chiunque dovrebbe vivere un periodo all’estero di almeno un anno.

L’Inghilterra, però, non è e non sarà più per molto tempo l’America d’Europa, la terra dove per decenni milioni di italiani hanno tentato – con alterne fortune – di trasformare in realtà sogni che apparivano irrealizzabili in patria.

Chi vuole ancora fare le valigie, dovrà esserne consapevole.

Luigi D’Onofrio

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