Il paesino britannico che ha scoperto una potente cura per le malattie: la socialità.

Frome è una cittadina come tante altre nel countryside – la campagna inglese – della regione del Somerset.

Spazi verdi, tipiche casette a schiera di epoca edoardiana o vittoriana perfettamente preservate nei secoli. Insomma il classico paesino, dove si immaginano i locali intenti a sorseggiare un buon tè ed a leggere un bel libro nel giardino dietro casa.

Il tipico scenario in cui ci si immaginerebbe di vivere una vita tranquilla, lontani dal caos, dalla frenesia, dallo stress, dalla solitudine, che la vita quotidiana spesso riserva ai cittadini delle grandi metropoli.

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Immagini di Frome (foto: courtesy of Wikipedia/Geograph.org.uk)

Diversamente dagli altri paesini del countryside inglese, però, Frome ha anche una vita comunitaria vibrante; qualche anno prima, infatti, è balzata agli onori delle cronache per avere eletto presso il locale Consiglio comunale una lista indipendente, snobbando tutti i tradizionali partiti britannici.

A Frome c’è anche lo studio di Helen Kingston, un General Practitioner, l’equivalente inglese del medico di famiglia. Da qualche tempo, Helen ha notato che alcuni dei suoi pazienti lamentano di essere trattati con freddezza, come se fossero un insieme di sintomi, piuttosto che esseri umani con problemi.

Alcuni di loro entrano ed escono dall’ospedale, in qualche caso le loro condizioni si aggravano.

Anche lo staff del suo studio risente negativamente di questa modalità di lavoro, che genera una condizione di “silo working”, espressione anglosassone traducibile come “lavorare a compartimenti stagni”, ovvero in assenza di un efficace scambio di informazioni tra diversi operatori e realtà socio-sanitarie.

Helen ha allora un’idea e nel 2013 lancia un’iniziativa, il Compassionate Frome Project.

Con il sostegno delle autorità locali e dell’NHS, la dottoressa Kingston recluta gruppi di volontari suddivisi in due categorie: gli “health connectors”, che aiutano i pazienti nella pianificazione ed attuazione delle cure e, cosa ancora più interessante, addestra una manciata di “community connectors”.

Questi ultimi iniziano ad offrire un diverso tipo di supporto, prevalentemente economico e sociale; si pongono, infatti come intermediari per la risoluzione di problematiche economiche od abitative, oppure aiutano i pazienti ad entrare a far parte di circoli sportivi, letterari, cori o gruppi musicali.

Favoriscono, in buona sostanza, la loro piena reintegrazione nel tessuto sociale di Frome.

Il Project diventa così oggetto di studio per i successivi tre anni.

Al termine di questo periodo, l’efficacia di questo programma di supporto contro l’isolamento sociale rivela outcome straordinari sotto il profilo della prevenzione: mentre nel triennio 2013-2016 gli accessi nei Pronto Soccorso (A&E) di tutta la regione del Somerset registrano un aumento del 26%, in quello di Frome diminuiscono del 17%.

Una coincidenza stupefacente? Nient’affatto.

Decenni di ricerche hanno rivelato, in più circostanze, gli effetti benefici di forti relazioni sociali sulla salute. Pazienti HIV positivi presentano valori inferiori del virus; donne con cancro colorettale e bambini negli orfanotrofi hanno migliori chance di sopravvivenza; una famosa review meta-analitica di 148 studi, che includeva un campione di 300.000 persone, pubblicata dalla Public Library of Science Journal (Holt-Lundstad et alia, 2010), dimostrò che le persone che hanno una vita sociale più intensa presentavano una mortalità inferiore del 50% durante l’arco temporale oggetto dello studio (7 anni e mezzo), rispetto a quelli che avevano connessioni deboli o vivevano completamente soli.

L’evidenza di queste ricerche è stata spiegata dalla biochimica e va ricercata, in particolare, nell’azione delle citochine.

Questi messaggeri chimici del sistema immunitario contribuiscono alla risposta infiammatoria nell’organismo sottoposto all’aggressione di agenti patogeni.

Ciò che è meno noto, tuttavia, è che le citochine e la risposta infiammatoria in generale, come pubblicato in un recente studio della rivista Neuropsicopharmacology (Elsenberger et alia, 2017), sono strettamente connesse anche con il comportamento dell’individuo, generando fatigue, anedonia, perdita di appetito, sonnolenza ed in generale uno stato depressivo.

Per effetto della risposta proinfiammatoria e delle conseguenti variazioni alla sua condotta sociale, l’uomo viene così spinto a selezionare e ridurre i contatti con altre persone, evitando situazioni di esposizione a potenziali rischi e privilegiando invece il supporto di chi possa fornire un aiuto a favorire il recupero dell’organismo ed a superare periodi di malattia, come familiari ed amici.

In tempi moderni, nei quali molti di noi, soprattutto i più anziani, non hanno più nessuno che li coccoli o li abbracci, tuttavia, la risposta indotta dalle citochine determina un circolo vizioso: l’individuo ammalato si deprime, si allontana dal contatto con altri esseri umani. Tuttavia, rimanendo privo di ogni forma di sostegno, conserva nel proprio corpo elevati livelli di citochine, che contribuiscono ad esacerbare le patologie, soprattutto quelle croniche.

L’esempio di Frome, insomma, fornisce una ulteriore conferma alle evidenze scientifiche che attribuiscono importanza vitale all’essere “animali sociali”.

In una Nazione, come il Regno Unito, in cui si stima che almeno un milione di persone vivano in condizioni di permanente isolamento, la solitudine sta diventando un vero e proprio allarme non solo per le istituzioni sociali, ma anche per le strutture sanitarie. Non solo gli accessi in Pronto Soccorso, ma anche i ricoveri per ragioni sociali, ovvero di pazienti che vivono soli e presentano un’elevato rischio di ricadute o non compliance alla terapia, sono aumentati sensibilmente negli ultimi anni.

Non è perciò casuale che, nella formazione del suo ultimo Governo, l’ex Primo Ministro Theresa May sia stata spinta ad istituire, per la prima volta nella storia britannica, un Ministero apposito: quello, appunto, della solitudine (loneliness).

In questo contesto, il Compassionate Frome Project rappresenta certamente un modello da trapiantare ovunque nel Regno Unito, dai piccoli borghi della countryside, fino alle grandi metropoli.

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Un gentleman inglese, di fronte alla sua tenuta (foto: courtesy of Needpix)

Liberamente tradotto e adattato dall’articolo originale “The town that’s found a potent cure for illness – community”, di George Monbiot, pubblicato sul The Guardian del 21 febbraio 2018.

  • Holt-Lunstad J., Smith T., Bradley Layton J., (2010). “Social relationships and mortality risk: a meta-analytic review”, PLoS Med, 7(7).
  • Elsenberger N., Moieni M., Inagaki T., Muscatell K., Irwin M., (2017). “In sickness and in health: the co-regulation of inflammation and social behaviour”, Neuropsicopharmacology, Jan; 42(1): 242–253.

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