Ho letto stamattina il breve ed interessante articolo del collega Marco Alaimo, pubblicato su www.nurse24.it, su un tema quanto mai attuale: l’impiego massivo di termini inglesi nel linguaggio corrente degli operatori sanitari.
Qui di seguito il link al pezzo:
http://www.nurse24.it/lingua-inglese-sanita-comunicare-meglio/
Da infermiere italiano trapiantato in Inghilterra ed ormai a tutti gli effetti bilingue, l’articolo mi offre lo spunto per un’interessante riflessione, troppo lunga ed articolata per essere condensata in un semplice commento su una pagina Facebook.
Il ricorso alla lingua inglese è un virus relativamente recente, da cui sono stati contagiati prima i medici, poi anche gli infermieri e tutti gli altri operatori sanitari.
In quanti lavorano nel day surgery? Quante volte i colleghi strumentisti hanno effettuato una check list di garze e strumenti?
Gli esempi, ormai, abbondano.
In realtà, tanti altri settori dell’economia e del lavoro sono stati da tempo “infettati” dal virus dell’anglicizzazione del linguaggio: fate una chiaccherata con un informatico od un economista e, se ci fate caso, vi stupirete per l’impressionante quantità di termini inglesi con cui infarciscono le conversazioni su temi inerenti alla loro professione.
Per non parlare dei politici, spesso – peraltro – del tutto ignari delle parole anglosassoni che impiegano.
Sarebbe interessante, per esempio, intervistare qualcuno dei relatori o del pubblico presente al convegno nell’immagine sottostante e capire se abbia la minima idea di che cosa significa l’espressione “uncostitutional payback”. Vorrei anche sapere perchè usano “governance” invece di “governo”.
Ma per chi lavora nella sanità italiana, a diretto contatto con i pazienti, l’inglese serve davvero?
Anticipo subito la conclusione del mio ragionamento: nel rapporto con il paziente, l’uso dell’inglese è inutile e dannoso.
Vivere e lavorare come infermiere in Inghilterra non ha fatto altro che rafforzare una convinzione già da tempo maturata nelle mie precedenti esperienze professionali, essendo in grado, ora, non solo di conoscere entrambe le lingue, ma anche di inquadrare la questione da una prospettiva completamente ribaltata e sicuramente molto più vicina al punto di vista del paziente.
In altri termini: siamo sicuri, quando comunichiamo con il paziente, di essere stati compresi?
Nella mia esperienza quotidiana gli ostacoli ad una comunicazione efficace, quella nella quale il paziente comprende e trattiene (mentalmente) le informazioni ricevute, arrivando anche ad interagire, sono numerose.
Il primo è proprio quello linguistico.
Avevo già trattato il tema in un mio precedente post, ma qui lo sviluppo per uno scopo differente.
Mi capita frequentemente di approcciare pazienti con una pessima conoscenza della lingua inglese. Molti lo hanno appreso come madrelingua, ma mescolato a termini tipici della loro area di provenienza. Il creolo è, appunto, la fusione di lingue locali e dell’inglese (o del francese) ed è molto diffuso in Africa e nei Caraibi.
Chi proviene da quelle Regioni riterrà di parlare inglese, ma – credetemi – comprendere spesso può essere una sfida, anche a causa di un accento particolarmente pesante. Di recente, anche i miei colleghi stranieri sono rimasti stupefatti dalla pronuncia, da parte di un’operatrice dell’ospedale, del termine “milk”, latte, che andrebbe correttamente pronunciato “miik”, enfatizzando la lettera “i” e quasi saltando la “l”, e che lei invece indicava come “mack”.
Non va comunque trascurato il fatto che anche l’accento di un infermiere o di un medico straniero, come nel mio caso, possono rendere problematica la comunicazione, anche (e soprattutto) nei confronti di un paziente inglese.
Per questo motivo, pur conscio che il mio accento italiano verrà sempre individuato dai pazienti British, sto sostenendo uno sforzo quotidiano per affinare sempre più la cadenza.
Qui si incontra il secondo ostacolo: quale accento dovrebbe imparare un infermiere o medico overseas come me? La cadenza londinese, almeno alle mie orecchie, comporta l’aspirazione di tutte le vocali. Alle volte, parlando con una donna, mi sembra di conversare – non intendo comunque mancare di rispetto alle londinesi – con Lisa Simpson.
Nella versione doppiata in italiano.
E’ d’obbligo imparare a comprendere la cadenza cockney, ma non si può assorbirla.
Altrimenti potrebbe risultare difficlmente intellegibile per un paziente scozzese, irlandese o di Manchester.
Un pò come se un infermiere napoletano intrattesse una conversazione con un bolzanino.
Idem dicasi per gli altri accenti.
La prima regola d’oro, quindi, è comunicare in un inglese “accademico”, quello degli attori di teatro o dei film degli anni ’60 e ’70. La seconda, immediatamente conseguente ed insegnatami da un collega della Repubblica Ceca, è quello di esprimersi lentamente.
Accelerare la conversazione sporca la pronuncia. Non serve a nulla, complica solo le cose.
Per tornare al tema principale, ovvero l’impiego della lingua inglese da parte degli operatori sanitari italiani, se usare termini anglosassoni è proprio inevitabile è auspicabile che lo si faccia con una pronuncia corretta: audit (che peraltro è un termine latino) si pronuncia “odit”, non come sta scritto, please.
Il secondo ostacolo alla comunicazione è quello lessicale.
L’inglese scientifico è prettamente di derivazione latina.
Per un infermiere italiano (o spagnolo, o francese), tradurre un referto medico è un gioco da ragazzi.
Non lo è per un paziente inglese.
Non di rado, l’uso di termini come “strabismus” o “nausea” ha fatto sgranare gli occhi a più di una persona, per il semplice motivo che l’inglese scientifico colloquiale spesso varia sensibilmente da quello accademico, per cui se un paziente si è sottoposto ad un intervento chirurgico per lo strabismo vi parlerà di “squint surgery”, se ha nausea vi riferirà “dizziness”, se starà per vomitare sarà sul punto di “throwing up”, non di “vomiting”.
Anche l’italiano scientifico può rivelarsi molto complesso per un paziente medio; pochi, ad esempio, conoscono il significato del termine “paracentesi”; pertanto, perchè dovemmo ulteriormente complicare la comunicazione inserendovi parole inglesi, quando gli stessi britannici, in ambito sanitario, fuggono non solo dalle parole di origine straniera, ma persino da quelle di derivazione latina, dunque di un ceppo linguistico differente da quello anglosassone?
Per ogni termine inglese esiste un corrispettivo italiano, per cui, se proprio non vogliamo trascendere in una ridicola deriva autarchica di mussoliniana memoria, in cui “menu” diventava “lista” e “Apache” “teppista”, possiamo almeno limitarci alle espressioni ormai diventate di uso comune, come day surgery.
In aggiunta, si possono impiegare termini anglosassoni quando la comunicazione avviene tra operatori: non credo che un infermiere od un medico rimangano a bocca aperta se si chiede di effettuare insieme una check list.
Ma con il paziente no, per favore.
Negli ultimi anni si è diffuso ed è infine prevalso un atteggiamento di diffidenza e di complottismo verso le “caste al potere”: banchieri, politici, medici, fomentato anche dai numerosi scandali che hanno travolto il nostro Paese.
L’impiego dell’inglese non fa altro che aggravare la distanza interculturale e quindi l’atteggiamento di scetticismo e di messa in dubbio di ogni avviso, comunicazione, consiglio rivolto al paziente.
Tanto più che l’Italia, nell’ambito della comunicazione sanitaria, presenta gravissimi ritardi rispetto al mondo anglosassone: se in Inghilterra soffro di una determinata patologia o voglio conoscere i servizi che mi offre un determinato ospedale posso recarmi sul sito Internet o, in alternativa, essere letteralmente sommerso da booklet e leaflet, ovvero libricini e foglietti informativi: i pazienti più informati spesso ne sanno quanto medici ed infermieri, ma in virtù dell’aver ricevuto una comunicazione corretta e mirata. Non hanno, in altri termini, bisogno di rovistare nella spazzatura di informazioni che spesso il web fornisce.
In Italia, invece, risulta spesso estremamente difficile reperire una carta dei servizi, conoscere i propri diritti nel caso in cui si voglia presentare un reclamo, oppure sapere gli orari di apertura o le prestazioni offerte da un determinato ambulatorio.
Bisogna inoltre avere l’abilità di cercare le informazioni desiderate sul sito Internet e non necessariamente su quello della struttura ospedaliera.
Per l’utenza più anziana, ottenere la risposta ai legittimi dubbi e quesiti che ci si pone in caso di malattia diventa spesso impossibile.
In buona sostanza, mettiamo da parte l’inglese, rispolveriamo un pò di umiltà e saniamo il rapporto con la popolazione che usufruisce dei servizi sanitari attraverso una comunicazione semplice e corretta.
Patients will appreciate it, i pazienti lo apprezzeranno.