Quando tornavo a casa mi facevano male i piedi.
Tanto che, molto spesso, ero costretto a stare a letto fino ad ora di cena.
Il dolore si irradiava fino alle ginocchia e mi rendeva pesante e faticoso il ritorno al lavoro il giorno dopo.
Così per mesi.
Fino a quando ho insistito per far sì che il mio manager ordinasse, per me e per altri, delle ciabatte da ospedale.
Quelle che in Italia si trovano in qualunque negozio di sanitaria, che al lavoro sono indossate da tutti gli infermieri e che in Inghilterra, fatto strano ma vero (tuttavia, mi è stato riferito, la stessa prassi è adottata anche in altri Paesi anglosassoni, come gli Stati Uniti), non sono obbligatorie.
Tant’è che molti infermieri vengono in ospedale con le ballerine, con le scarpe da tennis o da passeggio. Qualcuna azzarda anche un piccolo tacco.
Tutto normale. Ho chiesto conferma: non esiste nessuna policy, nessuna regolamentazione che imponga l’uso delle classiche ciabatte ospedaliere, quelle alla Dr. Scholl’s, per intenderci.
All’inizio mi ero adeguato ed avevo acquistato un paio di calzature da passeggio, consapevole del fatto che si sarebbe comunque trattato di una soluzione temporanea, ma dopo qualche mese mi sono dovuto arrendere, preda dei dolori lancinanti cui facevo precedentemente riferimento.
Il fatto è che le ciabatte ospedaliere non sono semplicemente delle scarpe più confortevoli di altre.
Sono dei DPI, dei dispositivi di protezione individuale.
In Inghilterra sono denominati PPE, Personal Protective Equipment.
Sono fabbricate rispondendo a specifici requisiti tecnici, dettati dalla Comunità Europea (sì, proprio quella dalla quale la Gran Bretagna sta per uscire).
La ragione di ciò dipende dal fatto che devono permettere al lavoratore di evitare, per quanto possibile, infortuni derivanti dall’utilizzo di calzature inadatte all’ambiente di lavoro.
Devono dunque impedire, sostanzialmente, scivoloni, torsioni della caviglia, devono proteggere da eventuali aghi che potrebbero cadere sul piede, e così via.
I DPI non solo proteggono il lavoratore, ma minimizzano gli infortuni e le malattie professionali e si traducono quindi in un vantaggio, non solo in termini economici, per il datore di lavoro.
Nel caso degli infermieri, non solo le scarpe, ma molti altri DPI, come il sollevatore o la cintura, hanno lo scopo di prevenire danni muscolo-scheletrici, quelli che più di frequente minano la salute non solo del personale infermieristico, ma anche quello di supporto.
Gli infermieri adottano, comunque, tanti DPI. Anche i guanti lo sono.
Tutti questi dispositivi, insieme a molte altre regole e limiti, consentono una movimentazione manuale dei carichi, non solo dei pazienti ma anche di altri oggetti, il più possibile sicura per tutti i lavoratori.
La normativa, ovviamente, non riguarda solo gli infermieri, ma tutte le categorie di lavoratori.
E’ mastodontica, complessa ed in Italia è sostanzialmente racchiusa nel Decreto Legislativo n. 81/2008, in cui è confluita la precedente Legge 626/94.
In Inghilterra è denominata Health and Safety Act e risale al 1974.
Entrambi i casi costituiscono l’applicazione di direttive europee.
Le legislazioni comprendono aspetti quali i DPI, la movimentazione manuale dei carichi, la predisposizione di un ambiente di lavoro salubre, e così via.
In materia sono stati scritti fiumi di parole, libri, trattati.
Esistono corsi di laurea ed autorità predisposte all’applicazione della normativa, come in Italia l’ISPESL, l’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del lavoro.
Solo che per qualche ragione che – a onor del vero – mi rimane ancora ignota, le scarpe degli infermieri, in Inghilterra, non sono considerate DPI (o PPE).
Per altre ragioni che invece sono più facilmente comprensibili, altri DPI non vengono messi a disposizione dei lavoratori o non vengono riparati o rimpiazzati, se non funzionano (in Italia, non in Inghilterra).
Accade quindi che molti si infortunino e che qualcuno ci rimetta perfino la vita, come avviene a molti operai nei cantieri edili.
Accade quindi che i lavoratori, presa coscienza dei loro diritti, presentino le loro rimostranze al loro datore di lavoro e, se queste non vengono accolte, che presentino ricorso in tribunale, al Giudice del Lavoro. Avviene di frequente.
Benchè non conosca la storia nei dettagli, potrei mettere la mano sul fuoco che è esattamente questo il motivo per cui alcuni infermieri di Pronto Soccorso, a Belluno, hanno presentato ricorso al Giudice del Lavoro: evidentemente, erano stanchi di sollevare pazienti senza sollevatore (in Inghilterra si chiama hoist ed ogni reparto, compreso il mio, è equipaggiato).
Come detto, la sicurezza sul lavoro è un importante diritto di civiltà, ma spesso ignorato.
Non solo da alcuni datori di lavoro.
Marco Lodoli, laureato in lettere, è un insegnante di Italiano in un istituto professionale della periferia di Roma. Dapprima scrittore di poesie, approda alla prosa con il romanzo, Diario di un millennio che fugge. I temi ricorrenti nell’opera di Lodoli sono il viaggio e la morte, ma soprattutto il rapporto tra l’io e l’altro (il “diverso”). Marco Lodoli scrive anche sul sito web di Tiscali.
Così leggo su Wikipedia.
Una mattina Marco Lodoli decide che è il caso di digitare qualcosa sulla tastiera.
Oppure qualcuno da Tiscali glielo ha chiesto.
Fatto sta che quel giorno Marco Lodoli, ignorando decenni di legislazione in materia di sicurezza sul lavoro, ignorando del tutto la professione infermieristica ed i suoi contenuti, decide di scrivere questo articolo.
http://notizie.tiscali.it/cronaca/articoli/infermieri-chiedono-sollevare-i-malati-nuoce-alla-salute/
Erano anni che non leggevo qualcosa che non mi facesse imbestialire così tanto.
Mai vista una tale arrogante, incompetente saccenza su un mezzo di comunicazione di massa di così larga diffusione.
Senza scendere troppo nei contenuti (quali?) dell’articolo, l’autore sostiene che sollevare i malati fa parte della professione infermieristica, che chiedere il risarcimento per i danni che ne derivano è vergognoso e che – Santo Cielo, dove andremo a finire di questo passo! – i sindacati e la Giustizia dovrebbero rifiutarsi di difenderli, altrimenti anche gli insegnanti dovrebbero chiedere i danni per la polvere dei loro gessetti.
Mi fermo qui.
Altrimenti inizierei ad usare epiteti offensivi.
Ho trascorso tre giorni, dopo aver commentato, a rispondere con pungente sarcasmo ai commenti dei (pochi) ignoranti che difendevano l’articolo, scagliandosi contro gli infermieri, a loro parere considerati pelandroni e nullafacenti.
Ma non basta.
Occorre una presa di posizione compatta contro tutte le diffamazioni che in questi tempi stanno piovendo contro la categoria infermieristica, per la tutela della categoria, sotto ogni aspetto, non solo quello della sicurezza, spesso negata, ma anche in termini di considerazione ed apprezzamento presso l’opinione pubblica.
E’ ora che i tanti, troppi scribacchini del web che si permettono di sentenziare su argomenti su cui sono largamente ignoranti chiedano scusa ed abbassino la testa.
Internet sta diventando megafono di troppe voci di questo tipo, specie in ambito sanitario.
Avevo 14 anni quando il mio professore del ginnasio barrò con la penna rossa la parola “membra”, che avevo scritto al posto di “corpo”, in un tema: lo fece accusandomi di essere un presuntuoso e di gigioneggiare con la lingua italiana.
Il vizio non l’ho perso, ma aveva ragione.
Quando si sta imparando o non si conosce, bisognerebbe essere umili ed informarsi, studiare.
Perchè gli ignoranti che sentenziano possono fare danni.
Questo, il professore di italiano nell’istituto professionale di Roma Marco Lodoli dovrebbe saperlo bene.