Diversi mesi orsono raccolsi le riflessioni del mio collega Vincenzo Limosani sull’esperienza dei concorsi pubblici in Italia. Vincenzo, strumentista presso uno dei centri di riferimento europei della cardiochirurgia, il Papworth Hospital di Cambridge, e’ uno dei tanti, dei tantissimi.
Ovvero dei tantissimi infermieri italiani, emigrati in questi ultimi anni, che vive una appassionante esperienza di lavoro all’estero, senza però mai dimenticare la sua Patria, anzi piuttosto scervellandosi (è proprio il suo caso, credetemi!) nella ricerca di tutte le possibili opportunità per tornare a lavorare in Italia.
Ci pensiamo tutti, alla nostra terra. Ogni giorno.
Qualcuno sarebbe disposto a fare i bagagli immediatamente, purché gli venga offerta una proposta di lavoro qualunque, qualcun altro, come nel mio caso ed in quello di Vincenzo, è disposto a farlo, ma senza perdere le conquiste professionali (ed economiche) raggiunte altrove.
Non siamo solo noi infermieri a perderci in questo mare di ragionamenti.
La nostra nazione vive da decenni l’abbandono di professionisti e cervelli, in fuga all’estero in cerca di una valorizzazione meritocratica delle proprie competenze; fino a qualche anno addietro, però, si trattava di poche centinaia di medici, scienziati e ricercatori, ora la stima è di migliaia di professionisti della sanità (siamo oltre 3000 in UK), di cui l’Italia avrebbe comunque disperatamente bisogno già oggi.
L’Italia sarà davvero una nazione nuova e diversa solo a partire dal momento in cui si sarà riuscito a sciogliere il bandolo di questa matassa. Riporto di seguito le riflessioni di Vincenzo:
“Quando sono partito, circa due anni fa, avevo una grande valigia piena di sogni, speranze e soprattutto voglia di imparare, acquisire nuove conoscenze. Una nuova lingua, una nuova cultura, un nuovo modo di concepire la sanità e il rapporto con i suoi dipendenti.
Mi ritengo una persona fortunata.
Ho avuto la possibilità in meno di due anni di arrivare ad un ambito specialistico partendo da zero, di lavorare con professionisti eccezionali provenienti da tutto il mondo, confrontarmi ed apprezzare culture totalmente differenti dalla mia.
Strumentare in cardiochirurgia con un team internazionale parlando in Inglese, per me che vengo da un piccolo paese del Sud Italia, è semplicemente “amazing”, come dicono qui.
Tuttavia nella mia mente spesso si presenta la nostalgia e la voglia di tornare in Italia, di tornare a casa. Tra l’altro l’avevo promesso! L’avevo promesso ai miei genitori, alla mia ragazza, a me stesso.
Avevo promesso che quando mi fossi realizzato come professionista, sarei tornato alla famiglia, agli affetti, alle cose che contano davvero.
Ma quanto vale l’esperienza all’estero al fine di tornare in Italia?
Tralasciando le assurde procedure concorsuali che mortificano il merito e annullano completamente qualsiasi tipo di esperienza, in Italia o all’estero che sia, in generale il valore, almeno per gli infermieri, è prossimo allo zero. Nel settore privato invece è diverso.
Infatti, tolte rare eccezioni, sarebbe meglio non dire che ci si è formati all’estero.
Ecco alcuni dei motivi a favore della mia tesi:
1. SIETE DEI TRADITORI DELLA PATRIA. Col diffondersi del “salvinismo”, gli Italiani, diciamocelo, sono diventati più orgogliosi anche verso i proprio connazionali. E allora tu che sei partito, che hai lasciato gli altri a soffrire la disastrosa situazione socio-economica dello Stivale, sei un traditore.
Poco importa se le motivazioni che ti hanno portato all’estero sono altre.
Quante volte ho sentito “se eri valido restavi in Italia, mentre hai scelto la via più semplice” (rido).
In pratica: sei in Inghilterra, ora restaci.
2. PARLATE ANCHE L’INGLESE. Una persona che parla Inglese da una parte affascina e può essere utile, dall’altra è una persona pericolosa, ovvero poco ricattabile.
Mi spiego meglio: parlare inglese fluente e avere una qualifica professionale riconosciuta, quale l’infermiere, apre le porte al mondo intero. Quante volte vi siete sentiti spremuti dal vostro datore di lavoro, sfruttati, maltrattati ma non potete dire nulla perché si rischia di perdere il lavoro? E perdere il lavoro oggi in Italia non conviene, lo riconosco.
Quindi non c’è limite alla spremitura.
Ma per uno che parla Inglese il limite esiste eccome.
C’è un limite a tutto.
Magari si torna in UK o si va in Australia, ma comunque un lavoro lo si avrà sempre.
Se c’è una cosa di cui oggi non ho più paura è quella di perdere il lavoro. E questo, per un datore di lavoro italiano è un fattore negativo.
Estremamente negativo.
3. AVETE IDEE DIVERSE, SIETE DIVERSI. Per forza di cose, l’esperienza all’estero ti cambia. Ovviamente si assorbe tanto delle culture con le quali si viene a contatto e anche dal punto di vista lavorativo si entra a far parte di un altro sistema. Ci tengo a precisare che non reputo assolutamente il sistema sanitario anglosassone migliore di quello italiano, ma semplicemente differente, nel bene e nel male.
Volenti o nolenti, si viene influenzati dal nuovo sistema e il risultato che ne scaturisce è sicuramente un infermiere italiano diverso, anche se non per forza migliore.
Tuttavia tornare in un ambiente lavorativo italiano potrebbe significare introdurre dei cambiamenti, dei modi differenti di pensare e di fare.
Qui il peggiore nemico non è più il datore di lavoro, ma i colleghi stessi.
Non tutti , ovviamente; ma già li vedo, in seduta comune, quelli del “si è sempre fatto così!”, dell’ “ ora è arrivato l’Inglese a dirci il nostro lavoro” e del “tornasse da dove è venuto”.
In conclusione, consiglierei l’esperienza all’estero?
ASSOLUTAMENTE SI’. SEMPRE.
È un’esperienza unica a livello umano e professionale che non ha prezzo. La vita è breve ed è meglio non tornare piuttosto che non partire affatto. Semplicemente, non partite perché l’esperienza all’estero vi darà più possibilità di tornare in Italia. Questo non posso garantirlo, nemmeno su me stesso.
Forse le mie tesi risultano pessimistiche o negative, ma come diceva Giulio Andreotti, che, in quanto a malizia ne sapeva tanto, “a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca quasi sempre”.
Saluti,
Vincenzo Limosani
Infermiere Strumentista
Papworth Hospital, Cambridge
Ovviamente le opinioni di Vincenzo sono personali ed opinabili; ad esempio, non mi trova d’accordo sulle resistenze al cambiamento che l’ambiente di lavoro potrebbe manifestare, solo in ragione della provenienza di un nuovo infermiere italiano da un’altra nazione.
L’opposizione dipende strettamente dalla mentalità del singolo ambiente di lavoro e l’esistenza del movimento #noisiamopronti, nonché l’interesse suscitato nei miei interlocutori quando racconto le mie esperienza all’estero, dimostra che una buona fetta della classe infermieristica, quanto meno, è aperta al cambiamento ed a nuovi contributi.
Per il resto, condivido molte delle sue affermazioni.
Nei confronti di un datore di lavoro, è meglio, in molti casi, mostrare di non essere od essere poco competenti, piuttosto che sfoderare le proprie competenze.
Sotto questo profilo, tra l’Italia e nazioni come l’Inghilterra persiste un abisso culturale: in UK il datore di lavoro offre mille opportunità per la crescita professionale (bisogna essere testardi e mettere in campo il massimo impegno, ma è ovvio), in Italia il datore di lavoro arriva perfino a formare il suo dipendente, per poi mandarlo a casa quando il contratto (precario) è scaduto.
E’ capitato a me, che ho lavorato sei mesi in dialisi, di cui due di solo affiancamento.
Chi lavora in dialisi, sa quanto sia complesso imparare a gestire un emodializzatore e ad incannulare pazienti.
E’ capitato alle migliaia di infermieri licenziati dopo mesi, anni di precariato in unità operative altamente specializzate.
Che spreco.