Il concetto di igiene personale è una questione culturale, è ovvio.
Ci sono popoli dediti a cospargersi il corpo di creme e profumi, altri che prestano attenzione all’igiene dei luoghi pubblici in modo maniacale, come gli Svizzeri ed i Giapponesi, mentre noi
Italiani rimpiangiamo il bidet quando siamo all’estero.
Perché è un dato di fatto che solo noi lo usiamo e gli altri ne fanno brillantemente a meno: d’altronde – mi è stato risposto da una straniera (per l’esattezza, una spagnola) a cui ne facevo presente la necessità – quando stai fuori casa mica ti metti a lavare le parti intime in un bagno pubblico! Magari poi lo fai a casa una volta tornato, ma questi sono punti di vista. In ogni caso, in un ospedale il rispetto delle basilari regole igieniche è fondamentale per la prevenzione ed il controllo delle infezioni. In questi primi dodici mesi trascorsi nel Regno Unito mi è tuttavia capitato di assistere a comportamenti paradossali e incomprensibili, non solo agli occhi di un infermiere italiano ma probabilmente di chiunque.
Prima di procedere nel discorso, sono necessarie due premesse: ho già raccontato di come sia impiegato presso il Moorfields Eye Hospital ma sia distaccato presso il St. George’s.
Ho inoltre vissuto per i primi dieci mesi della mia esperienza londinese letteralmente accanto al Chelsea and Westminster Hospital: mi posso quindi ritenere un osservatore privilegiato, potendo fare riferimento a tre diverse realtà lavorative. Punto secondo: le policies, cioè i protocolli ospedalieri, sono giustamente restrittive e le cattive abitudini che sto per descrivere sono legate alla condotta dei singoli individui, non dell’intera forza lavoro dell’ospedale.
Detto ciò, è assodato che l’immagine dell’infermiere sia strettamente legata alla divisa che indossa (anche nella sua accezione negativa, se si pensa a certi luoghi comuni sulle infermiere sexy).
E’ quindi normale in Italia che la divisa – lavata dalla lavanderia ospedaliera – venga indossata all’inizio del turno nello spogliatoio dell’ospedale e gettata via alla fine dello stesso per essere nuovamente inviata in lavanderia.
Sembra scontato, ma qui non è sempre così.
Vuoi per dormire qualche minuto in più al mattino, vuoi per altre ragioni che ancora non riesco ad identificare (mancanza di spogliatoi?), non è infrequente, al momento all’inizio turno, individuare pantaloni di cotone blu scuro o lembi di casacca bianca, azzurra o rosa (le classiche componenti della uniform dell’infermiere inglese) accuratamente nascosti sotto giacche o maglie della piccola folla che si sta recando in ospedale.
Capita talvolta anche sui mezzi pubblici di riconoscere a prima vista (non è difficile, basta farci l’occhio) un infermiere che si sta dirigendo o sta tornando dal suo posto di lavoro.
Vestire la divisa infermieristica dentro l’ospedale e non da casa è ovviamente una prassi legata al controllo delle infezioni, come confermato dai cartelli che nei reparti invitano per tale ragione i visitatori a non sedersi sul letto dei pazienti. Probabilmente quest’ovvia motivazione sfugge ai molti che immaginano di indossare una divisa “antibatterica” ed a prova di sporco, specie nei giorni di pioggia, quando le strade si riempiono di pozzanghere.
Sul versante opposto, l’impiego dell’apron, cioè del grembiule, è norma tutte le volte che esista un seppur remoto pericolo di contaminarsi con i liquidi biologici del paziente o di sporcare la divisa.
Capisco pertanto che sia obbligatorio indossarlo nell’esecuzione di manovre invasive come l’inserimento di un catetere vescicale e che protegga la divisa se si sta assistendo il paziente durante la doccia; trovo invece particolarmente restrittivo il suo impiego al momento della somministrazione del vitto o durante l’esecuzione di un prelievo ematico, anche perchè la possibilità che la divisa si contamini mi sembra abbastanza improbabile. Ma tant’è.
E l’igiene dei pazienti? Nella misura in cui sono capaci di esprimere le loro esigenze, benchè incapaci di intendere e di volere, vengono semplicemente persuasi a praticare una adeguata igiene, ma mai forzati. L’opera di convincimento è comunque costante e non passa molto prima che il paziente finisca sotto la doccia o venga lavato per bene, perlomeno per quanto riguarda la mia esperienza.
Il bidet – ovviamente – manca anche in ospedale.
Ma come si rimedia nel caso…si sia andati di corpo e noi (od il paziente) non abbiamo possibilità al momento di passare un bel getto di acqua tiepida là dove non batte il sole?
Si possono tentare molti rimedi, dal malloppo di carta igienica, che però si sfrangia ripetutamente, al tovagliolo, più resistente ma alla lunga irritante. Il “gold standard”, dopo tanti mesi vissuti qui, sono però le magiche wipes, cioè le salviette umidificate o da inumidire. Le wipes sono impiegate in UK per ogni genere di pulizia, anche in ospedale, dalla disinfenzione delle superfici e dei presidi, fino all’igiene personale. Quelle per bambini, poi, sono le più consigliate per la delicatezza al contatto con la pelle (e ci mancherebbe).
Sono questi i momenti in cui apprezzo l’essere maschio: basta poco ed il problema è risolto…nonostante abbia cercato lumi al riguardo, invece, mi restano ancora in parte avvolte nel mistero le peripezie e le tecniche acrobatiche che le donne impiegano in quei giorni e quelle studiate dalle donne italiane che, come le colleghe a cui ho domandato, vivono con me all’estero.
Si dice: di necessità virtù.
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