“Il mio Regno per un Infermiere”, come ho già spiegato, non nasce solo come blog per raccontare le mie esperienze personali di infermiere in Inghilterra, ma anche per condividere le testimonianze di tutti i colleghi che desiderino fare altrettanto.
Riporto qui di seguito l’avventura vissuta dall’amica e collega Federica Causero, anche lei, come me, staff nurse presso Il Moorfields Eye Hospital di Londra. Federica ha voluto condividere una vicenda personale istruttiva nella sua atipicità: Londra e l’Inghilterra, con la loro varietà nell’offerta lavorativa, le hanno infatti permesso di riscoprire e coltivare di nuovo la passione per l’infermieristica. D’altronde, chi l’ha detto che essere infermiere ed aiutare chi ha un problema di salute debba significare per forza solo ed esclusivamente sacrificio, fatica, stress, spirito di abnegazione?
“Ci tengo molto a dare il mio contributo al blog del collega Luigi, un po’ perché è importante per me sostenere le imprese degli amici, e un po’ perché ritengo possa essere interessante per i lettori sentire per una volta un punto di vista diverso dai soliti.
Il mio nome è Federica Causero, sono di Ravenna, ho 25 anni, e come tantissimi altri colleghi due anni fa ho lasciato l’Italia, il Paese dove sono nata, cresciuta e mi sono laureata in infermieristica, per cercare fortuna in Regno Unito. Ciò che rende la mia testimonianza diversa dalle altre che ho avuto modo di ascoltare finora, sono le ragioni che mi hanno spinto a fare questo passo.
Ciò che accomuna la maggior parte degli infermieri (se non tutti) che hanno preso la decisione di lasciare l’Italia a favore dell’Inghilterra, è un forte senso di delusione e rassegnazione nei confronti di un Paese che ormai nega a chi non dispone delle giuste raccomandazioni la possibilità di avere un futuro dignitoso (non starò a dilungarmi sulla questione, essendo ben chiare a tutti le condizioni nelle quali ormai da anni versa l’Italia). Conosco tante persone piene di passione per la professione infermieristica, che nel corso degli anni di studi hanno maturato una certa preferenza per una specifica area, si sono laureate piene di speranze, ma poi una volta venute a contatto con la triste realtà dei fatti si sono trovate costrette a prendere una decisione: quella di abbandonare per periodi più o meno lunghi il proprio Paese, decidendo quindi di sacrificare la sfera personale per potersi realizzare a livello lavorativo.
La mia situazione è alquanto differente.
In tutta sincerità e senza nessuna ipocrisia, vi dico che per me il fatto di non trovare lavoro dopo essermi laureata, non ha costituito un problema. Non fraintendetemi, sono pienamente consapevole della gravità della situazione, ma voglio provare a farvi comprendere la profonda crisi esistenziale che ho attraversato all’epoca. Reduce da un percorso di studi molto contrastante, fatto di alti e bassi, di tirocini da dimenticare alternati ad altri in cui pensavo “ma sì dai, alla fine gli sforzi vengono ripagati dalle soddisfazioni” e poi di nuovo “oddio ma chi me l’ha fatto fare?”, pur avendo mille perplessità porto a termine l’università (il mio carattere mi impedisce categoricamente di lasciare a metà qualcosa che ho iniziato) e raggiungo il traguardo della laurea.
Mi rendo conto a questo punto che mi manca una cosa fondamentale, che invece vedo nei miei colleghi: la voglia di iniziare ad esercitare la professione. Ed è un problema. Immaginatevi di aver investito tempo e denaro in un’impresa, e una volta arrivati al traguardo, non siete più sicuri della scelta che avete fatto. Tante volte ho avuto dei dubbi durante il mio percorso, ma ho sempre cercato di rimandare il momento in cui avrei dovuto farvi i conti. Ma con la laurea quel momento è arrivato.
Mi ritengo una brava infermiera, so rapportarmi molto bene con i pazienti, ho una notevole empatia e sono ben organizzata. Ma ho un grande difetto: la mia sensibilità mi porta a prendermi estremamente a cuore tutte le situazioni, tanto da non sopportare di vedere tutta quella sofferenza. Inoltre, per quanto mi sia sforzata di superare i miei limiti durante i tre anni di università, il contatto con i diversi fluidi corporei non fa proprio per me.
Ecco spiegato il motivo per il quale dico che non ero affatto dispiaciuta del fatto che fosse impossibile trovare lavoro una volta laureata: mi ha permesso di temporeggiare, cercando di capire cosa fare della mia vita; non essendoci riuscita, ho deciso di fuggire dal mio destino di infermiera provando a fare un’esperienza all’estero, ed ho scelto Londra, una città nella quale non ero mai stata, ma che ha sempre avuto un fascino particolare per me.
Il mio obiettivo era quello di trovarmi un lavoretto temporaneo come barista o cameriera, migliorando nel frattempo il mio inglese, e poi quando avrei avuto le idee più chiare sarei tornata a casa.
Non è passato molto tempo prima che capissi che avere una laurea in infermieristica in Inghilterra aveva tutto un altro significato rispetto all’Italia. Così, in uno stato d’animo intraprendente come mai prima di allora, mi lasciai tentare dalla miriade di annunci riguardanti la ricerca di infermieri – anche neolaureati – e cominciai a mandare curriculum alle agenzie di reclutamento che promettevano salari che in Italia me li sarei sognati.
L’entusiasmo per la nuova vita ha fatto sì che mi dimenticassi temporaneamente della crisi esistenziale che mi aveva spinto a lasciare l’Italia, ed ero più che mai desiderosa di iniziare a lavorare come infermiera a Londra. Essendo le mie intenzioni iniziali completamente differenti, mi ritrovai a dover sbrigare tutte le pratiche burocratiche necessarie per iscriversi all’NMC da Londra, cosa che si è rivelata possibile esclusivamente grazie al prezioso aiuto dei miei genitori, I quali, increduli dinanzi al fatto che avessi finalmente deciso di sfruttare la mia laurea, si sono fatti in quattro perché io potessi avere le carte in regola per esercitare la mia professione. Nel frattempo mandavo curriculum online (il metodo più diffuso per la ricerca di lavoro in Regno Unito), ed è incredibile la velocità con la quale ricevevo risposte.
Ricordo ancora la prima telefonata, non potrò mai dimenticare quanto fosse “british” l’accento del mio intervistatore, e la difficoltà nel comprendere quello che mi diceva. Non so ancora come, ma riuscii a dare qualche risposta sensata alle domande che mi poneva, e mi organizzò quindi un colloquio per una casa di riposo. Ero incredibilmente felice, io che appena un paio di mesi prima non volevo più sentire nominare la parola “ospedale”, ora addirittura ero una candidata per un lavoro in una casa di riposo (Nursing Home).
Mi presentai al colloquio completamente impreparata, non avevo idea di come funzionasse, né le possibili domande che mi avrebbero fatto, niente di niente. Ripensandoci mi fa sorridere quanto fossi sprovveduta all’inizio della mia avventura. Ma la mia forza di volontà, unita un po’ a quella capacità che ho sempre avuto di sapermela cavare quando sono sotto pressione, hanno fatto sì che ottenessi il lavoro, nonostante il mio livello di inglese dell’epoca fosse niente più che scolastico.
Gli accordi con la Matron erano che avrei lavorato come Health Care Assistant (più o meno l’equivalente del nostro Operatore Socio Sanitario, ndr), intanto che aspettavo il mio Pin Number (il numero di registrazione all’NMC, l’equivalente inglese del Collegio Ipasvi, ndr), per poi passare a Staff Nurse una volta che fossi stata regolarmente iscritta all’NMC.
Così iniziai la mia avventura nella sanità inglese, in quella casa di riposo nella quale ho lavorato per 9 mesi, che mi sono sembrati 9 anni per quanto sono stati intensi. Sono stati mesi di crescita soprattutto a livello personale (a livello professionale non posso dire di avere realmente migliorato le mie capacità, trattandosi più che altro di dispensare medicinali e raramente qualche medicazione).
Ripensando a quel periodo mi chiedo ancora come abbia fatto a sopravvivere: io che non volevo più fare l’infermiera, mi sono ritrovata a fare addirittura la Health Care Assistant, con tanto di igiene personale dei pazienti non autonomi, rifacimento letti e tutte quelle cose che avevo tanto odiato durante gli anni di università. E quando sono passata a Staff Nurse le cose non si sono di certo fatte più semplici. Anche solo rispondere al telefono diventava una sfida. Quando poi capitavano delle emergenze, non ne parliamo. E il fatto che molte volte mi trovassi a fronteggiare le situazioni da sola, non aiutava affatto.
Come ho detto, però, non rimpiango nulla, è stata un’esperienza di forte crescita e credo che dopo averla provata non mi spaventerà più nulla a livello lavorativo. La rifarei di nuovo? Assolutamente no. Il bello dell’Inghilterra è che, al contrario dell’Italia, ti permette di scegliere e di cambiare condizioni, se quelle attuali non ti soddisfano. Ed è così che, una volta satura dell’esperienza in casa di riposo, decisi che era il momento di provare l’esperienza in ospedale. Cominciai a guardare di nuovo gli annunci pubblicati dall’NHS. Compilai qualche application (domanda, ndr), ma non ero sicura di essere in possesso dei requisiti richiesti per lavorare nel settore pubblico, tant’è che avevo cominciato a prendere in considerazione l’idea di ritornare in Italia. Oltretutto anche la situazione in casa mia non era proprio delle migliori al tempo: 10 persone stipate in una casa con 6 stanze da letto e 2 micro-bagni, tutti con orari e abitudini differenti e impossibili da conciliare le une con le altre. La cosa più difficile da sopportare era la mancanza di ordine e di pulizia da parte di alcuni coinquilini, tanto da arrivare al punto di provare disgusto nell’utilizzare le aree comuni (ormai in palestra ci andavo più che altro per usufruire della doccia, sicuramente più pulita rispetto a quella di casa mia). No, in quel modo non potevo decisamente continuare.
Poi, all’improvviso, la svolta: ricevetti una e-mail da parte di un’agenzia di recruitment, che parlava dell’offerta di un lavoro in un prestigioso ospedale oculistico nel centro di Londra, il Moorfields Eye Hospital, per il quale i colloqui si sarebbero svolti a Bologna. Ho capito subito che quella era un’occasione da non perdere: gli aspetti dell’infermieristica che non amavo sarebbero venuti meno in un ospedale che si occupava esclusivamente di oculistica, e non avrei dovuto abbandonare la mia amata Londra.
Mi misi così in contatto con l’agenzia e mi accordai con uno dei responsabili per sostenere il colloquio direttamente a Londra anziché in Italia. Il mio colloquio per il Moorfields è stato incredibilmente diverso da quello che feci mesi prima per la casa di riposo. A quel punto il mio inglese era senza dubbio migliorato, mi ero un minimo preparata sugli argomenti che avrebbero potuto trattare, e il sistema sanitario inglese mi era un po’ più familiare. Devo dire che lo superai alla grande, e ne uscii molto soddisfatta.
La risposta non tardò ad arrivare: il giorno dopo, durante il turno in casa di riposo, squillò il mio cellulare. Ricordo che mi chiusi in spogliatoio per rispondere, ed era un responsabile dell’agenzia che mi informava che il colloquio era stato superato con successo, e che a breve avrei ricevuto una copia del contratto con il Moorfields Eye Hospital. Questo poneva fine alla prima fase della mia vita londinese, iniziata per caso e caratterizzata da un lavoro in casa di riposo, una casa in periferia che dividevo con altri 9 coinquilini e tanti sacrifici e difficoltà, e sanciva l’inizio della seconda fase, con una me stessa più consapevole, un lavoro in un ospedale pubblico ed una accomodation (residenza per lavoratori, molto diffusa in Inghilterra, ndr) in una delle zone più prestigiose di Londra, il quartiere di Chelsea.
Oggi lavoro al Moorfields da più di un anno, e ancora non riesco a credere alla fortuna che ho avuto nell’essere assunta in un posto che mi permette di esercitare solo la parte che amo dell’infermieristica, ovvero il prendermi cura del paziente, senza dover tollerare quegli aspetti che – come ho già spiegato – proprio non riesco a farmi piacere. Un perfetto compromesso.
I miei colleghi che hanno sostenuto il colloquio per il Moorfields in Italia sono arrivati a Londra sapendo già dove sarebbero andati ad abitare e dove avrebbero lavorato, al contrario di me che invece ci sono arrivata in modo casuale, dopo aver trascorso un anno travagliato e ricco di incertezze, ma sono convinta che le esperienze a livello personale che ne sono derivate siano impagabili, e quindi posso affermare con assoluta sicurezza che sì, ne è valsa la pena”.