In evidenza

La consensus conference della FNOPI: un confronto con il Regno Unito.

46 esperti del mondo infermieristico e della sanità.

Un anno di lavoro.

La consensus conference della FNOPI, pubblicata lo scorso martedì, era stata descritta, già nei primi post pubblicati sui social, come una pietra miliare, una bussola, in grado di tracciare la rotta dello sviluppo della professione infermieristica dei prossimi 20 anni. 

Viste le premesse, ne avevo letto tutti i punti, immediatamente e con grande interesse.  

(fonte: Fnopi.it).

Ma non ne ero rimasto affatto entusiasmato.

Per carità, intendiamoci, sono un modesto infermiere e non mi permetterei mai di entrare in polemica con un panel così autorevole. Per giunta, gli ultimi due direttivi FNOPI si stanno spendendo in numerose iniziative volte alla tutela ed alla promozione della professione, con dedizione, intensità e capacità di comunicazione e interazione con gli stakeholder straordinarie.

Tuttavia, avevo avuto subito l’impressione che, più che trattarsi di un documento realmente rivoluzionario, la consensus conference rappresentasse, per alcuni versi, un’occasione mancata.

Per averne conferma o smentita, ho perciò raccolto i ricordi della mia esperienza professionale nel Paese che, talvolta sbagliando (è il destino dei pionieri), da oltre un secolo esplora i nuovi confini della professione infermieristica, indicando la via all’Europa ed al resto del mondo: il Regno Unito.

Non mi riferisco di certo solo alla Nightingale: le figure dell’infermiere specializzato, prescrittore di farmaci, dirigente (solo per citarne alcune) sono state ideate, introdotte e strutturate in Gran Bretagna, peraltro in un contesto sanitario al quale il nostro stesso SSN si è ispirato, all’atto della sua istituzione.

Per capire se la consensus conference degli esperti FNOPI procedesse nella giusta direzione, non potevo quindi prescindere da un confronto con il modello britannico.

Ma il risultato ha confermato le mie iniziali perplessità. Le esporrò in tre punti.

1.L’INFERMIERE GENERICO 2: LA VENDETTA.

Perdonatemi l’ironia del titolo, ma è palese che la previsione di introdurre una “nuova figura di operatore sanitario, formato e gestito dagli infermieri, in grado di operare nei setting assistenziali, certificata in un registro nazionale gestito da FNOPI” sia una proposta di reintroduzione dell’infermiere generico, che susciterà ben più di qualche ironia, perché prevedo molte polemiche.

Nessuno nutre dubbi sul fatto che, affinché l’infermiere sia realmente responsabile e coordinatore dell’assistenza, occorre oggi più che mai l’inserimento di un ruolo intermedio tra il suo e quello dell’OSS, anche perché, altrimenti, la terribile carenza di personale infermieristico presente in Italia (stimata attualmente – secondo l’Università Bocconi – in 100.000 professionisti) implicherà delle due l’una: gli OSS dovranno assumersi responsabilità non previste nell’ambito del proprio ruolo, oppure gli infermieri saranno costretti ad autodemansionarsi, semplicemente perché mancherà personale per l’assistenza di base.

Va però constatato, in primo luogo, che il nostro sistema sanitario non ha mai investito più di tanto sulla promozione della figura dell’OSS.

Ad esempio, la figura dell’operatore socio-sanitario specializzato, che si sarebbe rivelata di estrema utilità nelle strutture residenziali, non è mai entrata a regime, pur essendo stata ben delineata nella norma. Sempre per rimanere “in punta di diritto”, poi, molti decreti ministeriali e regionali, come il D.M. 77/2022, prevedono organici di OSS inferiori a quelli infermieristici proprio nei setting – come gli ospedali di comunità – in cui le caratteristiche dell’assistenza, rivolta a pazienti cronici o subacuti, suggerirebbero piuttosto numeri invertiti.

In buona sostanza, in molte realtà italiane l’OSS è egli stesso demansionato, costretto ai trasporti od alle mere faccende alberghiere, senza alcuna prospettiva di carriera, in un contesto di lavoro ben poco attrattivo: prevedere una figura intermedia tra questi e l’infermiere, quindi, potrebbe aprire un ventaglio di interessanti opportunità.

Ma – per l’appunto – l’OSS specializzato era stato già previsto ed era inteso, perlomeno nell’opinione comune degli addetti al settore, proprio come evoluzione dell’infermiere generico: quindi, perché proporre una “nuova” figura?

Il sospetto che la consensus conference della FNOPI avesse gettato uno sguardo oltre i confini nazionali mi era sembrato piuttosto concreto, già ad una prima lettura delle conclusioni finali del panel.

In effetti in UK dal 2016, proprio per tamponare il crollo nelle nuove iscrizioni conseguente all’abolizione delle borse di studio universitarie, oltre che all’imposizione di parametri di ingresso molto più rigorosi per gli infermieri europei (ancora prima della Brexit), il Governo ha introdotto il ruolo del nursing associate, ovvero dell’assistente infermiere, formato tramite un percorso universitario biennale ed iscritto al registro NMC, più o meno l’equivalente britannico della FNOPI.

Le corrispondenze, anche terminologiche, con la proposta contenuta nella consensus conference sono troppo evidenti per ritenerle frutto del semplice caso: si menziona infatti l’iscrizione della nuova figura in un registro, come i nursing associate inglesi e non in un Albo (come invece accade per gli infermieri italiani), “per tutelare i cittadini e le organizzazioni che fruiranno del loro intervento”, che è esattamente l’obiettivo per cui infermieri e nursing associates sono iscritti nel registro NMC.

Il sospetto si è poi trasformato in certezza dopo l’analisi della relazione, in cui si fa chiaramente riferimento alla figura del “Certified Nursing Assistant” presente “nel contesto internazionale”: nello specifico, quello statunitense (perché, perché continuare ad ispirarsi ad un sistema sanitario così lontano dal nostro?).

Dal CNA – attraverso una traduzione letterale, ma con scadente appeal – è stata poi ricavata la denominazione di “Assistente certificato all’infermieristica” (AIC).

Manca però, nel documento nostrano, un dettaglio importante: ovvero il contesto formativo della nuova figura, che però, a questo punto, presumo dovrà essere di pertinenza universitaria.

Nel rendere inoltre operativa la nuova figura, sarà fondamentale prevedere adeguati scaglioni retributivi tra le varie figure, per scongiurare il pericolo di rendere ancor meno attrattiva la professione infermieristica, attraverso la previsione di ancor maggiori responsabilità, a fronte di una remunerazione di poco superiore a quella di un OSS o di un “assistente”, come già accade oggi. La consensus conference se ne occupa solo nella relazione e in modo abbastanza sfumato, laddove si fa riferimento ad un sistema di gestione strategica delle risorse umane che contempli anche “sistemi di valutazione, ricompensa e sviluppo del personale“.

Scommetto comunque che, fra tutte le proposte del panel FNOPI, quella del “nuovo ruolo” sarà la prima ad essere presa in considerazione dalle istituzioni: l’attuale tendenza politica, supportata dal difficile momento storico di crisi mondiale della workforce sanitaria, spinge infatti a trovare soluzioni facili per tappare buchi nel modo più veloce ed economico possibile. Questa proposta rispetta tali criteri, eccome.  

2. PRACTITIONER, PARAMEDICS, COORDINATORI E INFERMIERI PEDIATRICI: DUBBI, INCERTEZZE, OMISSIONI.

Intendiamoci: l’apertura della categoria “alla base” farà storcere il naso a molti, ma non è affatto un male, fintantoché si prevedano contestualmente percorsi di carriera “al vertice”, come avviene appunto nei Paesi anglosassoni e come anche gli infermieri italiani reclamano da tempo, anche attraverso iniziative eclatanti di qualche tempo addietro, come quella del Noisiamopronti.

Sotto questo aspetto, la consensus conference dedica ampio spazio alla figura dell’infermiere docente universitario e su quella del dirigente, di cui la sanità italiana del Terzo millennio non può più ignorare la rilevanza; fin qui, nulla da eccepire.

In Gran Bretagna, però, ogni infermiere può scegliere tra due percorsi principali di carriera, che spesso, dopo alcuni anni, possono anche parzialmente sovrapporsi: quello manageriale – per l’appunto – e quello clinico, cioè del practitioner specializzato con un percorso universitario ad hoc (in genere un master biennale), in grado di eseguire procedure riservate ai soli medici in molti altri Paesi e di prescrivere farmaci.

Tralasciamo in questo contesto la figura del ricercatore, inserita – sia in Italia che in UK – negli organici universitari, ma non in quelli aziendali.

Ora, il documento FNOPI insiste molto sulla formazione avanzata in ambito clinico degli infermieri, ipotizzando perfino “una laurea magistrale a indirizzo clinico abilitante per un profilo con competenze avanzate”; nella relazione, inoltre, si menziona un asse di sviluppo in senso “orizzontale” in ambito clinico, con il riconoscimento di “funzioni e attività specifiche rispetto al laureato triennalista” e “l’attribuzione della complessità nel paziente degente o territoriale“, ma non si usa mai esplicitamente l’espressione infermiere specialista, mentre talora si impiega quella di “infermiere magistrale” o “laureato magistrale” : perché impegnarsi a trovare una nuova denominazione per gli “assistenti certificati”, ma non attribuire una precisa identità, anche nominale agli specialisti? Perché non definirne il ruolo in dettaglio, ad esempio chiarendo che lo specialista non solo gestisce la complessità, ma può governare in completa autonomia interi percorsi assistenziali, esattamente come avviene in altri Paesi?

E perché accennare solo in modo molto generico, in un altro punto del documento, al riconoscimento, “nel sistema di remunerazione… della specificità del ruolo agito dagli infermieri professionisti nelle organizzazioni sanitarie”?

Se la figura del practitioner appare definita in modo un po’ sfumato- mentre sarebbe stata l’occasione perfetta per definirne accuratamente i contorni – quella del paramedic è invece completamente omessa.

Sostituiamo subito il termine paramedic con quello di soccorritore, altrimenti qualcuno – come già mi accadde in passato – potrebbe avanzare critiche, visto che l’etimologia dell’espressione britannica richiama una vicinanza od un supporto alla figura medica, rispetto alla quale gli infermieri vogliono mostrare sempre maggiore indipendenza e autonomia.

Il fatto è che il paramedic britannico, figura specializzata nell’emergenza-urgenza extraterritoriale, è davvero molto più indipendente e autonomo di qualunque infermiere del 118 italiano; oltre ad essere formato con un percorso universitario specifico, ha anche una carriera distinta rispetto all’infermiere, arrivando – a seguito di ulteriori training – non solo a prescrivere oltre 60 farmaci in completa autonomia, ma anche ad eseguire procedure invasive (come l’intubazione) riservate in Italia al medico.

L’intervento dei paramedics britannici permette di trattare in loco – e quindi di filtrare – quasi la metà degli accessi in Pronto Soccorso, con una gestione extraospedaliera delle emergenze attualmente impensabile in Italia, dove non solo il riconoscimento delle competenze avanzate degli infermieri del 118 trova grandi resistenze nella categoria medica, ma dove la maggior parte delle chiamate, soprattutto nel Nord Italia, vengono gestite da soccorritori “laici”, formati con un corso di 120 ore.

Considerando la drammatica crisi da sovraffollamento dei Pronto Soccorso, con ore di attesa interminabili per problematiche spesso gestibili a domicilio, non menzionare un ruolo specifico di soccorritore, formato attraverso un percorso universitario dedicato, è davvero una lacuna grave ed un’occasione perduta. Certo, si fa riferimento a percorsi post-universitari nel settore dell’emergenza-urgenza, ma è davvero troppo poco.

Altre perplessità riguardano il futuro dei coordinatori: come si concilia la previsione di riservare questo ruolo ai laureati magistrali con la presenza di migliaia di infermieri che hanno già investito un anno di tempo, energie e – spesso – risparmi personali, per conseguire il master di primo livello, attualmente unico requisito previsto per l’abilitazione al ruolo? Sarà loro ancora consentita la partecipazione ai concorsi? Per quanto tempo?

Concludo questa riflessione sulle figure specialistiche con il ricordo di una bellissima esperienza personale, quella che vissi anni addietro presso l’Unità di Pediatria medica dell’ospedale di Pescara.

Fui assunto come libero professionista, senza alcuna esperienza pregressa nella specialità.

Feci del mio meglio per adattarmi il prima possibile. Quando lasciai, dopo un anno, portai con me un’infinità di conoscenze, momenti, immagini di pazienti dolcissimi e di colleghe meravigliose.

Ma mi resi conto che i bambini non sono piccoli adulti e che la formazione ricevuta durante il mio percorso universitario non mi aveva preparato a sufficienza per lavorare in pediatria “con scioltezza”, almeno nei primi tempi.

Trovo dunque corretto che il documento FNOPI ipotizzi la necessità di convertire il corso di laurea in infermieristica pediatrica in un percorso specialistico post-base: ma siamo sicuri che in questo modo venga garantito, nel tempo, un sufficiente turn-over? E qualora si verificasse la necessità di assumere con estrema urgenza, per impedire ad esempio la chiusura di reparti, si andrà a pescare di nuovo dai laureati triennali?     

3. STUDIARE, STUDIARE, STUDIARE… MA QUANDO? COME?

La consensus conference dedica ampio spazio alla formazione, soprattutto magistrale, degli infermieri.

Per avere professionisti esperti, con competenze avanzate, in grado di seguire percorsi di carriera specialistici, i corsi ECM non bastano: siamo tutti d’accordo.

Il punto è: quando trovare il tempo di studiare? E chi paga?

Ad oggi, fatta eccezione per poche aziende illuminate (in genere, pubbliche), la studio post-base è lasciato all’intraprendenza dei singoli, che sacrificano riposo, tempo libero, affetti e denaro per seguire un master od un corso di studi magistrale (le 150 ore di permesso studio sono spesso un’utopia!), per puro desiderio di crescita personale e senza alcun ritorno economico.

Una realtà ben diversa da quella del Regno Unito, in cui si viene sì formati in base alle esigenze dell’azienda, che però finanzia integralmente i corsi di studio e garantisce gli study days.

Perlomeno, fino a poco tempo addietro.

Perché anche in UK, viste le carenze infermieristiche paragonabili a quelle italiane, sta diventando sempre più complicato coprire i puzzle dei turni, consentendo al tempo stesso un rapporto infermiere/paziente adeguato e la formazione avanzata del personale.

In fin dei conti, ci troviamo di fronte ad un circolo vizioso: la crisi nel reperimento di forza lavoro impone sacrifici crescenti a chi è già stato assunto, rallenta o blocca percorsi di studio o progressioni di carriera, il mantenimento di adeguati ratio infermiere/paziente, impedisce il superamento di logiche assistenziali prestazionali/esecutive e di misurazione degli outcome attraverso un data set (quindi ostacolando l’attuazione di molte delle proposte contenute nella consensus conference), forzando quindi molti infermieri ad abbandonare la professione ed a rinforzare il circolo vizioso.

È un gorgo nel quale si fa fatica a galleggiare, figuriamoci a trovare una via d’uscita.

Non credo perciò di poter considerare il lavoro del panel di esperti FNOPI come una pietra miliare, come altri l’hanno definito: in effetti, leggo che il documento verrà presentato alle competenti commissioni parlamentari, per l’analisi e la futura definizione di progetti di legge. Vedremo quali saranno gli esiti.

Nel frattempo, è indubbio che il grande lavoro svolto dal panel costituisca un importante spunto di riflessione, su cui imbastire ulteriori discorsi, proposte e lotte sociali (eh sì, è arrivato il momento) in grado di coinvolgere davvero l’intera categoria.

Esattamente come sta accadendo in queste settimane nel Regno Unito, dove lunghi anni di umiliazioni e sacrifici imposti agli infermieri si sono concretizzati nei primi scioperi generali organizzati in oltre 100 anni di storia sindacale. 

Luigi D’Onofrio