Gli indicatori di qualità in A&E.

Gli indicatori di qualità clinica in A&E sono stati introdotti nel 2011 dal Department of Health, allo scopo di fornire una visione bilanciata ed onnicomprensiva sulla qualità di cura nei servizi di emergenza, includendo gli outcomes, l’efficacia clinica, la sicurezza e l’esperienza, tanto quanto la tempestività e superando il focus isolato sulla rapidità di cura, ovvero sul target delle 4 ore, originariamente introdotto nel 2004.
Nessuno di loro viene quindi preso in considerazione singolarmente, ma nel loro insieme costituiscono un barometro della qualita’ dei servizi di A&E in Inghilterra, che sono suddivisi in tre tipologie:

  1. Type 1 (Major);
  2. Type 2 (Specialist):
  3. Type 3 (Minor Injury Unites and Walk-in Centres).

Gli indicatori vengono inoltre valutati congiuntamente ai NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence) Quality Standards ed agli NHS Outcomes Framework, per dare un panorama globale della qualità dell’emergency care. Le statistiche risultanti dall’impiego degli indicatori vengono pubblicate regolarmente sui siti web dei Trust ed esposte collettivamente sul sito dell’NHS Digital, per consentire all’opinione pubblica di venirne a conoscenza.
Il Department of Health ha individuate nel complesso 8 indicatori, che esamineremo nel dettaglio.

1) Ambulatory care, ovvero numero di admission per condizioni gestibili in sede extraospedaliera, per condizioni come la Deep Vein Trombosis (DVT) e e la cellulitis.

Le evidenze scientifiche suggeriscono infatti che una elevata percentuale di casi possono essere trattati in sede ambulatoriale, nel 60/90% dei casi di cellulitis e nel 90% in quelli di DVT.

2) Tasso di re-attendance in A&E entro 7 giorni da quello precedente.

Opinioni di esperti suggeriscono che si può considerare accettabile un tasso inferiore al 5%, ma uno inferiore all’1% potrebbe indicare un’avversione al rischio, ovvero un eccessivo respingimento.

3) Tempo totale speso in A&E (dal momento della registrazione), per pazienti ricoverati e non.
E’ probabilmente l’indicatore più famoso. Molti giornali, perfino i tabloid, pubblicano articoli ricordando infatti che il tempo di attesa massimo non deve superare le 4 ore, prima dell’accettazione o del ricovero; ciò deve verificarsi nel 95% dei pazienti che accedono ai servizi di emergency care in un determinato giorno. La singola attesa più lunga, inoltre, non deve superare le 6 ore, non essendovi evidenze che giustifichino una permanenza ulteriormente prolungata, mentre la letteratura internazionale ha dimostrato che il rischio di adverse outcomes aumenta se la durata è compresa tra le 4 e le 6 ore.

4) Percentuale di pazienti che abbandonano l’A&E dopo essere stati ricevuti e registrati, ma prima di essere visti da un clinical decision maker (in genere, il triagista).

Anche questo tasso dovrebbe rimanere inferiore al 5%, mentre livelli più alti riflettono una insoddisfazione dei pazienti, dovuta alla carenza organizzativa.

5) Feedback sul servizio da parte dei pazienti.

Chiunque lavori in UK conosce il Friends and Family Test, ovvero la scheda di feedback che viene rilasciata ad ogni paziente e/o ai loro carers e che dovrebbe essere compilata dal maggior numero possibile di loro, in modo da ricevere descrizioni narrative dell’esperienza vissuta con i servizi di emergency care. Ogni tre mesi (quarterly), ogni Trust dovrebbe divulgare un rapporto sulla patient experience e il rapport medesimo dovrebbe costituire elemento per l’adozione di decisioni cliniche.

6) Tempo trascorso dall’arrivo all’assessment iniziale.

Questo indicatore si applica esclusivamente agli arrivi in ambulanza, ma dovrebbe applicarsi anche ai major cases, per i quali, tuttavia, non esiste ancora una definizione specifica. Buona pratica consiste nell’effettuare l’assessment entro 20 minuti dall’arrivo. Per arrivo si intende il momento in cui si riceve l’handover, o comunque 15 minuti dopo l’arrivo dell’ambulanza in A&E. In pratica, questo significa che il paziente deve essere valutato entro 35 minuti dal momento in cui l’ambulanza si ferma all’ingresso dell’Accident and Emergency Department. Una percentuale del 95% dei casi esaminati oltre i 15 minuti puo’ tuttavia suggerire la necessità di operare dei miglioramenti.

7) Tempo dall’arrivo fino all’esame da parte di un decision making clinician (ovvero un professionista che puo’ stabilire un management plan ed un discharge).

Il tempo dall’inizio del trattamento dovrebbe essere minimizzato, ma senza pregiudicare gli altri indicatori. Esperte opinioni cliniche suggeriscono che I pazienti dovrebbero essere esaminati da un decision maker entro 60 minuti dall’arrivo, ma questa tempistica potrebbe essere lunga per casi piu’ gravi, come sepsi, stroke, infarto miocardico.

8) Consultant sign-off, ovvero percentuale di pazienti appartenenti a determinati gruppi ad alto rischio (es. Adulti con dolore toracico non traumatico, bambini di età inferiore ad un anno febbrili) che si presentano negli A&E Type 1 e 2 e che vengono esaminati da un emergency medicine consultant prima del discharge.

Opinioni esperte indicano che tutti i pazienti che si presentano con queste sintomatologie dovrebbero essere esaminati da un consultant. Nei fatti, questo può risultare particolarmente complicato, per cui è comunque accettabile un assessment da parte di un senior trainee (ST4 o superiore) o da personale con sufficiente esperienza nei servizi di emergency medicine, sebbene questo debba avvenire in circostanze eccezionali, allo scopo di ridurre al minimo i rischi per i pazienti.

Gli indicatori precedentemente indicati stanno comunque costituendo una sfida sempre più difficile da fronteggiare per gli A&E dell’NHS, tanto che, in relazione al famoso limite di permanenza delle 4 ore, la barra fu inizialmente fissata al 98% dei casi, per scendere poi al 95% nel 2016.

Ultimamente, il Department of Health, dietro pressioni dei Trust, sta pianificando di abbassarla ulteriormente al 90%.

Lettera aperta degli infermieri italiani nel Regno Unito all’Ordine delle Professioni Infermieristiche.

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Londra 16 marzo 2018

alla Presidente Dott. Ssa Barbara Mangiacavalli

 

al Comitato centrale

ai Presidenti provinciali

Ordine delle Professioni Infermieristiche

Gentili Colleghi,

chi Vi scrive sono i figli di un Ordine minore.

Quelli che hanno fatto le valigie, gli emigrati, per alcuni i traditori della Patria.

Noi siamo, in particolare, gli infermieri italiani emigrati in Gran Bretagna, ma siamo sicuri di non peccare di superbia, affermando che le nostre rivendicazioni sono le stesse dei colleghi che vivono e lavorano in Svizzera, Germania ed in molti altri Paesi d’Europa e del mondo.

Siamo i figli di una diaspora che molti noi hanno deciso liberamente, molti altri forzatamente, come conseguenza di anni di disoccupazioni, di contratti precari o di lavoro dipendente, simulati da partita IVA, di contenziosi con datori di lavoro che non hanno erogato mesi di stipendi.

Una diaspora che è avvenuta sotto i Vostri occhi e, purtroppo, nel Vostro silenzio, soprattutto negli ultimi cinque anni.

Siamo tanti, migliaia. 2.600 di noi sono alle dipendenze del sistema sanitario pubblico più antico, grande e celebre al mondo, il National Health Service inglese, mentre molti altri prestano la loro attività nel settore privato.

Dopo aver lasciato la nostra terra ed i nostri affetti ed aver superato un periodo di ambientamento, molti di noi, tra mille difficoltà e sacrifici, hanno iniziato a compiere progressi significativi nelle loro carriere professionali.

La nostra comunità annovera già docenti, coordinatori di Dipartimento, professionisti con competenze così avanzate da essere in grado di eseguire, in autonomia, procedure chirurgiche riservate in Italia ai soli medici. In molti hanno conseguito titoli di studio post laurea e tutti stanno accumulando un incredibile patrimonio di conoscenze, in un contesto organizzativo estremamente vicino, nei principi costituenti, al Servizio Sanitario Nazionale.

Questo fenomeno, tuttavia, continua ad avvenire nel silenzio delle istituzioni italiane e del neonato Ordine.

Il recente Congresso nazionale della Fnopi, per esempio, ci ha praticamente ignorati.

Ci siamo sentiti troppo spesso dimenticati due volte, prima e dopo essere partiti.

Chi di noi rientra in Italia lo fa in sordina, per ragioni familiari, o più semplicemente perché è stanco di vivere lontano da casa.

Nessuno di noi si attende di essere accolto da un tappeto rosso, ma di certo non torniamo perché ci vengono proposte condizioni di lavoro migliori od avanzamenti di carriera.

Sappiamo, invece, che ci toccherebbe fare molti passi indietro.

Chi rientra è atteso, ancora una volta, da contratti di lavoro temporanei; nel migliore dei casi, da un posto in una struttura pubblica, dopo aver superato però il calderone di una selezione, che i Padri Costituenti concepirono per scegliere imparzialmente i più meritevoli e che oggi, invece, dimentica colpevolmente proprio la sua ragione istitutiva.

Perché gli infermieri che emigrano all’estero possono ottenere il riconoscimento degli anni di servizio solo passando attraverso una procedura lunga e complessa, spesso non in linea con i tempi e le esigenze di un candidato ad un concorso.

Perché i titoli di studio conseguiti all’estero non vengono riconosciuti, se non genericamente, all’atto della selezione, e talora vengono messi da parte all’atto della nomina, quando ci ritrova assegnati ad una Unità Operativa o ad una branca clinica completamente diversi da quella dove si sono maturati anni di lavoro e di esperienza.

Cosa aspettarsi, d’altronde, da un Paese che nemmeno con la bozza del nuovo contratto collettivo offre alla categoria un adeguato riconoscimento delle competenze avanzate e specialistiche?

Specializzazioni, dirigenza, management, sono parole, concetti, obiettivi di carriera che un nurse inglese vive nella sua operatività quotidiana.

Quando un infermiere italiano in Inghilterra si abitua a questa realtà, diventa poi difficile capire perché il medesimo riconoscimento non avvenga in Italia.

La comunità infermieristica italiana nel Regno Unito ha vissuto negli ultimi anni il fenomeno dell’emigrazione, in linea di massima, come necessità.

Ha scoperto poi le opportunità che la sanità inglese offre agli infermieri, ha sperimentato sulla propria pelle un altro modello di sanità, un altro modello di nursing, ha iniziato a coglierne i frutti e desidera ora mostrarli ai colleghi in Italia, condividendo le competenze e le esperienze maturate.

E’ per questa ragione che abbiamo deciso di superare la solitudine nella quale abbiamo vissuto e di organizzarci, autonomamente e spontaneamente, lontano da chi finora ci ha trascurato, ma senza dimenticare mai chi sono gli interlocutori istituzionali nella nostra Patria.

Non sono infatti le istituzioni che creano le comunità, ma il contrario: è esattamente questo che sta avvenendo nel Regno Unito, dove, per ora ancora solo sui social media, le migliaia di infermieri sparpagliati sul territorio britannico stanno iniziando a prendere forma e consistenza di una comunità professionale, che interagisce vivacemente e fonde le proprie esperienze, in un processo finalizzato alla crescita comune e ad obiettivi condivisi.

Chi Vi scrive rappresenta un gruppo che riunisce, ad oggi, oltre 400 infermieri italiani in Gran Bretagna e che ha assunto la denominazione di Italian Nurses Society, ispirandosi all’antico modello di cooperazione ed autotutela della società di mutuo soccorso.

Abbiamo due soli mesi di vita e la nostra voce è quella di una frazione dell’intera comunità, ma ci proponiamo di rappresentarla in futuro nella sua interezza, diventando l’associazione di riferimento della comunità infermieristica italiana presente sul territorio britannico.

Cercheremo, se necessario, il gemellaggio anche con altri colleghi, qualora intendano avviare analoghe iniziative sul territorio britannico: a differenza di quello che vediamo accadere in Italia, dove la rivalità e la contrapposizione stanno rendendo la categoria sempre più divisa e debole, l’isolamento e la lontananza ci hanno fatto comprendere l’importanza dell’unità e della solidarietà, nel segno dell’appartenenza alla medesima categoria professionale.

Lo scopo di questa lettera aperta, comunque, non è solo quello di comunicarVi la “lieta novella” della nascita di una comunità di infermieri italiani nel Regno Unito, ma anche di annunciarVi che, se finora non siamo stati ascoltati, saremo da oggi noi a far sentire la nostra voce, in modo sempre più pressante, individuando in Voi e nell’Ordine delle professioni infermieristiche il nostro esclusivo interlocutore istituzionale in Italia.

E’ nostra intenzione, infatti, avanzare una serie di richieste finalizzate ad un futuro, effettivo riconoscimento normativo delle competenze maturate dagli infermieri presenti in Gran Bretagna, che passano dal riconoscimento automatico, in sede concorsuale, degli anni di servizio e dei titoli di studio conseguiti, ma anche di creare un ideale ponte, foriero di scambi e di opportunità professionali, tra la comunità infermieristica italiana ed i suoi figli, emigrati in Gran Bretagna e, tramite loro, con i colleghi inglesi.

Queste istanze sono irrealizzabili, in assenza di un dialogo con l’Ordine. Esso si fonda, peraltro, sulla premessa di un riconoscimento ufficiale, in quanto associazione di rappresentanza degli infermieri italiani nel Regno Unito, che con questa lettera Vi chiediamo per la prima volta ed in via ufficiosa.

Siamo convinti che i nostri propositi siano ambiziosi e di non semplice realizzazione; abbiamo piena consapevolezza che i problemi che oggi la categoria affronta sono gli stessi, se non più gravi, di quelli che costrinsero molti di noi a preparare i bagagli.

Siamo altresì certi, tuttavia, che, se le nostre rivendicazioni dovessero oggi rimanere inascoltate, non potrete domani non sentire la voce di migliaia di infermieri, che magari non desiderano più tornare in Patria, ma non hanno dimenticato i loro colleghi.

L’apertura ad un confronto internazionale evidenzierà che un altro modello di nursing, in cui l’infermiere riveste un ruolo di protagonista nella definizione dei modelli organizzativi dell’assistenza e delle politiche sanitarie in generale, è possibile.

Avete già perso la nostra professionalità e le nostre capacità.

Vi chiediamo di non perdere, ora, l’ulteriore contributo che veniamo ad offrirVi.

Con osservanza

Luigi D’Onofrio

Giuseppe Porfido

Gianluca Adinolfi

Marta Eleonora Marchetti

Felicia Livrieri

Sergio Maria Riggi

e tutti gli infermieri della Italian Nurses Society

Intervista a Filippo Carretta, da infermiere a massaggiatore nel Regno Unito.

Molto spesso arriviamo ad un punto, nella nostra vita lavorativa, in cui non proviamo più soddisfazione in ciò che facciamo ed iniziamo a chiederci se quella scelta sia ancora la strada giusta.

Alcuni di noi hanno bisogno solo di staccare un po’ la spina, altri di cambiare semplicemente ambiente, altri ancora voltano pagina e iniziano un nuovo capitolo.

A tal proposito, posto qui un’intervista della collega Felicia Livrieri ad un suo amico, Filippo Carretta, detto Pippo, un infermiere pugliese che, dopo aver deciso di espatriare in UK ed aver lavorato nell’NHS, ha scelto di dare l’ennesima svolta radicale alla sua vita, intraprendendo una nuova carriera, in un settore alternativo e complementare rispetto a quello della sanità “tradizionale”.

filippo carretta

“Cosa ti ha fatto maturare l’idea di svolgere la tua professione come infermiere all’estero e soprattutto in UK?”

L’UK”…. – sorride e riprende – “E’ stata più una conseguenza che una decisione.

La scelta dell’UK è stata la più facile. Mi spiego meglio. Finiti gli studi in Italia, ho iniziato a guardarmi intorno, le possibilità erano molte, non solo come infermiere. In Puglia lavoravo nel mondo della radiofonia, all’interno di radio e tv regionali e allo stesso tempo lavoravo per una compagnia privata di ambulanze. C’era abbondanza di lavoro, ma ciò che scarseggiava erano gli stipendi, si lavorava quasi gratis con la scusa di “far esperienza”.

Ciò mi ha fatto pensare che dovevo guardarmi intorno, fuori dalla penisola italiana. Mi sono chiesto: se devo fare volontariato vado in Africa, se devo lavorare devo essere retribuito. Non ti nascondo che ci ho pensato e ho cercato posti in Africa dove fare volontariato, ma la vita mi ha portato verso una ricerca più “rapida”, “facile” e sensata, quella di cercare lavoro all’interno dell’Europa. Le nazioni che offrivano più opportunità come infermiere erano Regno Unito, Germania e Svizzera.

Partiamo dal presupposto che non ero attratto da nessuna di queste tre nazioni. La scelta più facile è stata l’UK per la lingua (tra inglese e tedesco preferivo imparare l’inglese) e per essere Londra una città multiculturale. Era il 2015, quando ho provato un colloquio a Roma per il West Middlesex University Hospital. Sono stato assunto e nel giro di pochi mesi mi sono trasferito qui, dove ho iniziato a lavorare con l’NHS fino alla metà del 2017”.

“Dopo quanto tempo hai sentito la voglia di cambiare lavoro, aprendoti a nuovi orizzonti; soprattutto, come mai hai compiuto questa scelta?”

Da subito, mi sono reso conto che stavo rivestendo un ruolo all’interno di un sistema che non condivido. Uscito dall’Università, avevo la carica e la voglia di fare del bene, rendendomi utile per gli altri. In ospedale, nei reparti di degenza, si cerca di rimettere in salute il paziente spegnendo i sintomi. Io però sono del parere che i sintomi sono segnali che il nostro corpo invia e noi dobbiamo interpretare per capire cosa non va e capire su cosa agire. Spegnere o trattare il sintomo non cura a mio avviso la malattia.

In ospedale mi scontravo con una realtà che si opponeva a ciò in cui credo e ciò mi ha messo di fronte ad un bivio: continuare nella professione infermieristica, indirizzandomi magari verso l’emergenza, oppure aprirmi a nuovi orizzonti. Essendo interessato alla cura della persona nella sua interezza, mi sono chiesto: cosa potrebbe promuovere la salute e il benessere?

Le risposte sono state semplici e rapide: basta prendersi cura del nostro corpo, ascoltando ciò che ci dice ed entrando in relazione con noi stessi. Possiamo prevenire una malattia partendo da una corretta alimentazione, stile di vita, esercizio fisico, dalla cura di se stessi. Questa consapevolezza mi ha portato a coltivare molte passioni. Da qui ho scelto di iniziare una nuova professione: il massaggiatore, in inglese massage therapist o masseur.”

“Che formazione hai dovuto svolgere per intraprendere questo nuovo ruolo? Che tipo di massaggi esegui? La tua figura è regolata giuridicamente da un’istituzione, simile all’NMC?”

Inizialmente ho seguito un corso di studi di un anno, nel quale ho studiato principalmente anatomia, fisiologia, patologia (materie che avevo già seguito, ovviamente, durante il mio corso universitario di infermieristica). Alla teoria seguiva poi una sessione pratica.

Al termine di questo corso ho ottenuto il mio diploma da massaggiatore e ho continuato i miei studi in Thailandia ed in un’università a Londra. In realtà, non si finisce mai di studiare.

Corso dopo corso, gli studi sono costanti. La mia figura non è regolata da istituzioni come l’NMC ed io lavoro come self employer, freelance, con una assicurazione personale.

Eseguo massaggi di ogni tipo: sportivo, olistico, tailandese, rilassante, energizzante, riflessologico”.

“È stato facile trovare lavoro in questa nuova realtà?”

Ci vuole sempre il “lato B” nella vita, anche in questo caso…

Mettersi alla ricerca di un lavoro è stato ovviamente più facile qui a Londra, che in Italia.

Nel Regno Unito è stato più semplice anche fare esperienza: infatti, in pochi anni ho massaggiato oltre 2000 persone. Per la maggior parte del tempo ho dovuto lavorare come self-employer.

E’ meno semplice rispetto al lavoro da dipendente, ma rappresenta una sfida che decisamente ti spinge a risultati migliori e ti apre opportunità imprenditoriali, partendo dal basso per poi crescere grazie all’impegno, alla dedizione ed al…famoso “lato B”, appunto”.

“Come si svolge la tua giornata tipo, che orari fai e quali sono le sfide che incontri in questo lavoro?”

La mia giornata tipo è molto variabile. Ci sono stati periodi in cui lavoravo in hotel, altri in cui le agenzie con cui collaboravo mi mandavano a domicilio dei clienti, altri ancora in cui lavoravo in più posti: clinica di medicina Cinese, studio chiropratico, salone di bellezza.

Al momento tendo a mantenere rapporti stabili con la mia clientela privata, esco con la macchina e raggiungo la casa del primo cliente, controllo il telefono e riparto per la chiamata successiva. Promuovo inoltre la mia attività tramite una pagina Internet”.

“E’ soddisfacente la retribuzione che questo lavoro offre?”

Ride… “Guadagno da zero a 250£ al giorno: non ci sono regole, dipende dal numero di clienti che hai e dal periodo. Bisogna crearsi la clientela, si parte da cifre meno soddisfacenti per migliorare col tempo. Questo succede quando lavori in proprio, le tue entrate sono variabili”.

“C’è chi parla di massaggi come terapia alternativa, cosa ne pensi tu a riguardo e quali sono le tue più grandi soddisfazioni lavorative?

Massaggio come terapia, decisamente! Terapia, che nella mia mente non è associata più alla “pillolina”. Il massaggio è un mezzo per alleviare la tensione e lo stress, al quale – ricordiamo – sono riconducibili molte patologie. E’ un’ottima terapia, un ottimo modo per rilassarsi, per provare benessere e per entrare in sintonia con noi stessi”.

“Qualche giorno fa mi hai parlato della “continua evoluzione” della tua professione, raccontaci un po’ le opportunità che ti si sono aperte”.

Tutto è in continua evoluzione. Dal cambiamento scaturiscono nuove opportunità, che sta a noi cogliere. Incontrare persone interessanti, persone che ci trasmettono la giusta energia, situazioni che ci permettono di fantasticare, ideare, sognare e progettare qualcosa. Ho tanti progetti; sto lavorando ad uno sulla creazione di “aree di benessere”, frequentate da persone che vivono in contatto col loro corpo. E’ ancora presto per lanciare questo nuovo business, ma si inizia da piccoli passi, piccole trattative che crescono e alimentano i sogni. Non esiste ancora quello che voglio creare, quindi posso solo dirti che l’idea è di abbracciare varie realtà: spa, centro meditazione…. diciamo un posto per “ritiri all’insegna del benessere”. Quindi l’evoluzione continua, speriamo sempre.

“Ti ritieni soddisfatto di questa scelta e rimpiangi mai la tua vecchia professione?”

Mi ritengo decisamente soddisfatto. Come dicevo prima, è un’evoluzione, sapevo che ciò che avevo fatto era un processo per arrivare al punto dove sono ora; tuttora penso che questo processo continuerà e mi porterà ancora non so dove. Non tornerei indietro, credo in ciò che sto facendo, non ha senso fare passi indietro, si potrebbe, ma la natura umana ci spinge sempre a provare cose nuove e andare avanti. Tornassi indietro, lo rifarei sicuramente.

“Che consiglio ti senti di dare a chi si sente insoddisfatto della professione infermieristica?”

Cambiare! Senza timori e paure, anche se hai una laurea ed hai speso anni per arrivare dove sei, bisogna ricordare che tutto serve a qualcosa e ci ha insegnato qualcosa, sicuramente non saremmo le persone che siamo senza ciò, quindi dobbiamo ringraziare e andare avanti. Ci vuole solo coraggio. Coraggio e voglia di andare avanti”.

Grazie mille Pippo, per aver condiviso con noi la tua esperienza! Ancora tanti auguri per un buon proseguimento della tua carriera.