Mi sono ammalato in Inghilterra! Piccola guida per turisti e residenti.

Che si decida di andare in vacanza in Inghilterra o di viverci (e lavorarci) stabilmente, bisogna sempre considerare che l’imprevisto può capitare e che, per un improvviso malessere o per un incidente, ci si debba recare dal medico o, più frequentemente, presso un Pronto Soccorso (A&E) inglese.

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In quanto cittadini italiani e dell’Unione Europea, non dobbiamo temere che, al momento della dimissione, ci venga presentato il conto da pagare: la tessera sanitaria e, sul retro della stessa, la Tessera Europea di Assicurazione Medica (TEAM o, in inglese, EHIC, European Health Insurance Card) ci garantiscono una copertura totale.

Una buona ragione per portarvela sempre con voi nel portafoglio.

Chi paga per noi? Mamma Italia (e lo zio Servizio Sanitario Nazionale), naturalmente! Tra gli Stati membri dell’Unione Europea (e la Svizzera), vige infatti un regime di reciproco riconoscimento dei servizi sanitari offerti agli stranieri che non sono residenti, ma sono al tempo stesso cittadini delle Nazioni facenti parte dell’Unione medesima.

Pertanto, così come l’Italia rimborserà l’Inghilterra per una prestazione effettuata ad un vacanziere a Londra, lo stesso (al contrario) avverrà se un turista di Sua Maestà dovesse ammalarsi a Roma.

Tale regime trova applicazione, con alcune variazioni, anche ai residenti in Inghilterra, a condizione che ci si sia iscritti all’AIRE, il Registro degli Italiani all’estero.

Invece di criticare in modo distruttivo le istituzioni che ci governano e la sanità in particolare, pensiamo perciò, almeno ogni tanto, a quale straordinaria conquista di civiltà rappresentino ed a quanto dobbiamo quotidianamente combattere per preservarle e migliorarle.

Soprattutto dopo che, dal 23 Ottobre 2017, alcune disposizioni sul trattamento dei pazienti stranieri sono state modificate, per cui, anche nei casi di urgenza, con riguardo ai pazienti “overseas” extracomunitari, sia il personale amministrativo che quello clinico NHS sono tenuti ad “operare il massimo sforzo“, per ottenere il pagamento anticipato della prestazione sanitaria, salvo che l’urgenza non sia ulteriormente differibile.

L’NHS, così come il nostro SSN, sono infatti servizi sanitari pubblici e generalmente gratuiti, ma tale regola non è sempre applicabile a tutti. La normativa è molto articolata e complessa e contenuta in un documento ufficiale, aggiornato periodicamente dal Department of Health (il Ministero della Sanità inglese), denominato “Guidance on implementing the overseas visitor charging regulations“.

Per chi volesse approfondirne la lettura (non credo che saranno molti gli entusiasti), lo potete trovare e scaricare gratuitamente a questo link ufficiale: https://www.gov.uk/government/publications/guidance-on-overseas-visitors-hospital-charging-regulations

Mi sono preso la briga di leggerlo ed esaminarlo nella parte che ci interessa più da vicino, in quanto cittadini italiani; per rendere la lettura più digeribile, ho diviso questa piccola guida in due sezioni: la prima riguarda i turisti, la seconda i cittadini italiani residenti in UK.

Breve avvertenza: farò sempre riferimento all’Unione Europea, ma le normative che trattero’ in seguito riguardano anche i cittadini di altri Paesi, come l’Islanda e la Norvegia.

1. TURISTI ITALIANI IN VACANZA NEL REGNO UNITO.

Come già accennato in precedenza, una condizione fondamentale per recarvi in Pronto Soccorso a cuor leggero (per l’aspetto relativo al pagamento, non per la vostra condizione di salute!) è che portiate con voi e che mostrate al personale addetto all’accoglienza, in genere un receptionist, la Tessera Sanitaria Europea. Se ciò, malauguratamente, non avvenisse, sappiate che vi verrà presentata la fattura dei servizi erogati, che sarete tenuti a pagare immediatamente, salvo poi la possibilità di chiedere il rimborso allo Stato italiano, a meno che non siate “ordinariamente residenti” in UK.

Al di là di questa eventualità, tutti i trattamenti sanitari necessari fino alla data del ritorno sono gratuiti, compresi quelli di maternità prenatali e postnatali e la dialisi. Qualora il paziente-visitatore fosse in una condizione di instabilità clinica che ne possa compromettere la sopravvivenza, l’NHS garantisce comunque l’assistenza ed i trattamenti necessari fino alla completa stabilizzazione.

I trattamenti gratuiti non comprendono però i “dental fees”, ovvero alcune prestazioni odontoiatriche, e soprattutto le prescrizioni dei farmaci. Per tutti questi ultimi, in particolare, si applica l’NHS Charge, ovvero la tariffa unificata che, dal 1 Aprile 2018, è 8.80£ (si tratta però di una cifra che viene aggiornata a rivalutata annualmente) per tutti i farmaci, nessuno escluso: alcuni dei più popolari, come l’ibuprofene od il paracetamolo, potranno quindi essere preferenzialmente acquistati “OTC/over the counter”, vale a dire in una farmacia, come quelle della famosa catena Boots, dove costano molto, ma molto meno.

Per quanto riguarda i trattamenti pianificati, come gli interventi chirurgici non urgenti, esistono invece altre regolamentazioni. La prima è quella contemplata dalla Direttiva 2011/24/UE, per cui si potrà esercitare il diritto di ottenere la prestazione sanitaria in un altro Paese dell’Unione Europea, presso un soggetto pubblico o privato, senza chiedere l’autorizzazione allo Stato di appartenenza, ma sostenendone i costi e poi chiedendo il rimborso al Paese di origine.

Altre soluzioni solo quelle previste dalla S1 ed S2 “Route” (percorso), nei quali il cittadino dell’Unione Europea che voglia ottenere la prestazione sanitaria in UK (od in altro Paese dell’Unione) detiene uno dei due moduli, denominati appunto S1 ed S2.

Quest’ultimo è frutto di un accordo, quindi di un’autorizzazione preliminare, tra il Regno Unito e lo Stato di appartenenza del richiedente il trattamento, che si accollerà quindi tutte le relative spese. L’accordo prevede anche consultazioni preliminari con la struttura nella quale si intende ricevere il trattamento richiesto (ad esempio, un trapianto d’organo); affinché il trattamento sia coperto dallo Stato di appartenenza, tuttavia, è necessario che la struttura sia pubblica. All’arrivo, il paziente dovrà inoltre esibire il modulo S2, altrimenti saranno garantiti solo i trattamenti necessari, mentre quelli programmati resteranno interamente a pagamento.

Il modulo S1 trova invece applicazione ai pensionati britannici residenti fuori dai confini, ai lavoratori inglesi distaccati dal proprio datore di lavoro presso un altro Paese dell’Unione Europea (e viceversa), nonché a partner e figli di lavoratori distaccati in UK, quindi ad una minoranza di casi, nei quali, comunque, viene garantita una copertura anche di tutte le prestazioni sanitarie programmate.

2. I CITTADINI ITALIANI RESIDENTI NEL REGNO UNITO.

Se decidete di emigrare, sappiate che, se volete evitare inutili complicazioni, dovete essere diligenti e rispettare le normative di due Nazioni: Italia e Gran Bretagna.

In primo luogo, i cittadini italiani residenti all’estero devono contemporaneamente registrarsi all’NHS (recandosi da un GP, come vedremo tra un attimo) ed iscriversi all’AIRE, l’Anagrafe dei residenti all’estero. Quest’ultimo è un obbligo previsto dalla legge che deve essere assolto entro 90 giorni dall’insediamento in un qualunque Paese estero, pena (parecchie) complicazioni dal punto di vista fiscale, in cui potrete incorrere anche a distanza di anni, essendo soggetti – nel caso non siate residenti – alla tassazione da parte di entrambi i Paesi.

L’iscrizione all’AIRE vi priverà del diritto di ricevere trattamenti sanitari non urgenti in Italia e vi cancellerà automaticamente dalle liste del vostro medico di famiglia, in quanto potrete esercitare il medesimo diritto in Inghilterra: andate dunque dal GP (General Practitioner) più vicino o comunque di vostra preferenza e registratevi. In caso contrario, potrete accedere solo alle cure dell’A&E o di un Urgent Care Service con servizio di walk-in, in pratica una sorta di punto di Primo Soccorso, in cui non è richiesta la registrazione.

Vivere e lavorare in UK, ovvero – secondo la normativa – essere ordinariamente residenti in questo Paese non vi esime, anche in questo caso, dal pagamento dei farmaci o delle prestazioni odontoiatriche, ma vi esonera dal pagamento dei servizi “planned” e di “secondary care”, ovvero quelli programmati e non urgenti, come, per esempio, le visite di follow-up dopo un trattamento effettuato in regime di urgenza.

L’obbligo di iscrizione all’Aire comporterà però la perdita di validità della TEAM e la necessità di richiedere una Tessera sanitaria europea inglese, (EHIC) attraverso una semplice domanda online (occorrono in genere dieci giorni lavorativi per vedersi recapitare la tessera), al seguente link: https://www.nhs.uk/using-the-nhs/healthcare-abroad/apply-for-a-free-ehic-european-health-insurance-card/

Il concetto di ordinaria residenza è determinante, ma piuttosto indefinito nei suoi contorni. In altri termini, è piuttosto generico e può essere soggetto a verifiche da parte degli organi competenti caso per caso, tuttavia, in linea generale, si può considerare ordinariamente residente un cittadino straniero che viva legalmente e volontariamente in Inghilterra e che abbia organizzato la sua vita in modo stabile in questo Paese. Si considera normalmente, ma non necessariamente, un residente ordinario in UK chiunque vi trascorra un periodo di almeno sei mesi l’anno, ma un cittadino dell’Unione Europea potrebbe benissimo essere considerato tale sin dal primo giorno.

La qualifica precedentemente descritta si estende anche ai figli che non vivano nel Regno Unito, a condizione che venga dimostrato che vivono abitualmente con entrambi i genitori, ma non ai partner/coniugi, che avranno invece diritto solo alle prestazioni sanitarie necessarie.

Spero che queste informazioni vi possano essere utili, ma il mio augurio è che non vi debbano mai servire davvero!

La scatola finlandese: un miracolo del welfare, un grande mistero dell’epidemiologia.

Alla nascita di un bambino, è normale attendersi che il piccolo riceva tante attenzioni e soprattutto tanti regali da parenti e amici della famiglia: vestitini, coperte, tovaglioli, biberon, mille oggetti destinati alle amorevoli cure quotidiane.

Esistono, tuttavia, anche tanti neonati che, appena venuti al mondo, devono affrontare, loro malgrado, enormi difficoltà, di salute o socio-economiche, legate alla povertà delle loro famiglie.

La Finlandia, oggi uno dei Paesi col tenore di vita più alto del mondo, in virtù delle sue decennali politiche di welfare, cioè di ridistribuzione delle risorse pubbliche a sostegno dei più svantaggiati, nel 1938 era una Nazione povera e con un tasso di mortalità infantile molto elevato: 65 bambini ogni 1000 nati.

L’imminente guerra, che vide coinvolta anche la stessa Finlandia contro l’Unione Sovietica, non avrebbe potuto far altro che peggiorare la situazione.

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Piccoli profughi finlandesi in fuga dalla guerra verso la confinante Svezia nel 1939.

Nel 1938, tuttavia, il Governo finlandese decise di regalare un “pacchetto maternità” a tutte le neomamme, racchiuso dentro una scatola di cartone: il dono aveva l’obiettivo di garantire alle famiglie con un basso reddito condizioni di assistenza ai loro bambini uguali a quelli delle coppie più benestanti. La scatola conteneva vestiti, una sleeping bag, ovvero un sacco a pelo, lenzuola ed un materasso sottile che, insieme alle quattro pareti della scatola, avrebbe costituito la prima culla del bambino.

Il regalo veniva però elargito, tramite servizio postale, a condizione però che le gestanti, entro il quarto mese di gravidanza, si recassero da un medico o presso una “pre-natal clinic”, un ambulatorio di maternità. Elemento essenziale, indubbiamente, per estendere a tutta la popolazione essenziali screening prenatali.

In alternativa alla baby box, il Governo poteva versare una somma di denaro, che nel tempo è stata adeguata al tasso di inflazione ed oggi ammonta a circa 140 Euro, ma una schiacciante percentuale, che ancora oggi si attesta al 95%, delle mamme, ha sempre optato per la scatola, cui venne attribuita, già dall’inizio, un valore assai superiore.

L’idea fu straordinariamente vincente ed efficace, tanto che, nel 1949, il dono della baby box venne estesa – udite udite! – a tutte le neomamme, anche quelle più agiate.

Nei decenni, il Sistema Sanitario finlandese ha conosciuto numerose riorganizzazioni e le condizioni socio-economiche dei cittadini sono sensibilmente migliorate, ma la baby box ha continuato ad essere richiesta e distribuita, ricevendo anzi una serie di aggiornamenti e divenendo, nel tempo, parte integrante della tradizione popolare.

Ad oggi, la scatola contiene decine di oggetti, comprendendo, oltre alle lenzuola, coperte e vestiti, anche pannolini riusabili, biberon, asciugamani e prodotti per la toilette, creme, fino a prodotti specifici per le mamme ed i papà, come i tiralatte e persino i condom.

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I contenuti tipici di una Finnish box.

In particolar modo a partire dal dopoguerra, la “scatola di cartone” ha contribuito al crollo del tasso di mortalità infantile nel Paese scandinavo, portandolo a valori inferiori al 5 mille, uno dei migliori al mondo, come evidenziato da questo grafico ufficiale, tratto dall’istituto nazionale di statistica finlandese:

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Le idee vincenti, ovviamente, trovano proseliti. Negli ultimi anni, infatti, la tradizione della baby box è stata adottata dal Canada, dal Sudafrica, dall’India, da alcuni Stati USA, come il New Jersey, e nel Regno Unito. Gli ospedali londinesi di Chelsea and Westminster ed il Queen Charlotte’s sono stati infatti, nel 2016, i capofila di una sperimentazione, nell’ambito dell’NHS, che in breve tempo ha portato alla introduzione in via permanente del maternity package a tutte le mamme disagiate in molti Trusts dell’Inghilterra e, a partire dall’agosto di quest’anno, anche in Scozia.

Ma perché la Finnish box contribuirebbe ad abbattere il tasso di mortalità infantile? Non solo, la baby box è stata anche collegata alla riduzione della SIDS, Sudden Infant Death Syndrome o sindrome della morte improvvisa del lattante, che in Gran Bretagna registra ancora 300 casi all’anno ed in Italia circa 250.

Benché vi siano studi che dimostrano come vi sia un rapporto inversamente proporzionale tra tasso di mortalità infantile e condizioni socio-economiche, non ho trovato, al contrario, ricerche che spiegassero il rapporto tra l’adozione della scatola e la riduzione del suddetto tasso e dei casi di SIDS in particolare. in altre parole, la Finnish box è un miracolo del welfare, ma anche un mistero per l’epidemiologia.

D’accordo, non esageriamo.

I fenomeni sociali spesso trovano spiegazione in diverse concause, mentre, per quanto riguarda la morte del lattante, alcune ricerche associano una parte di questi infausti eventi all’abitudine di alcuni genitori di far dormire il neonato insieme a loro nel letto matrimoniale – abitudine che, ovviamente, la scatole di cartone permetterebbe di evitare.

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Mancando, tuttavia, evidenze scientifiche relative all’efficacia della scatola, di recente una charity, ovvero una Onlus inglese, il Lullaby Trust, ha messo in guardia da un utilizzo improprio della scatola, sostenendo che la culla è il posto più sicuro dove un bambino possa dormire e che, se proprio si voglia adottare una scatola di cartone, devono essere seguite alcune indicazioni, quali:

  • Utilizzare solo la scatola per i pisolini diurni e far dormire il bambino in una culla o vicino al letto dei genitori durante la notte;
  • Non utilizzare la scatola una volta che il bambino è in grado di rotolare;
  • Non mettere più materassini in cima al primo, per alzare il bambino fino ad un livello superiore;
  • Assicurarsi che la scatola sia posizionata su una superficie solida e non possa rovesciarsi;
  • Non utilizzare la scatola se si bagna o sporca;
  • Non mettere la scatola su un pavimento freddo;
  • Tenere gli animali domestici lontani dalla scatola;
  • Non lasciare il bambino incustodito o fuori controllo;
  • Non sollevare o portare la scatola intorno alla casa se il bambino è dentro di essa;
  • Non mettere il coperchio sulla scatola se il bambino è dentro di essa;
  • Assicurarsi di rispettare tutte le istruzioni relative all’età ed al peso massimi.

Non nascondo, tuttavia, che l’idea della “scatola finlandese” mi ha affascinato fin da quando ne sono venuto a conoscenza. Ho da pochissimo saputo che l’idea è stata importata anche in Italia, sotto il nome di “valigia maternità” nell’ambito del Programma 1000 giorni, in alcuni ospedali aderenti di Napoli e Roma. Il progetto è stato sviluppato dall’associazione Pianoterra Onlus, in collaborazione con l’Associazione Culturale Pediatri, ma ne accoglierei con entusiasmo l’estensione a tutto il SSN.

Due Paesi, stessa Sanità, stessi problemi.

L’NHS ed il nostro SSN, per chi ancora non lo sapesse, sono due sistemi sanitari identici, benché nati a 30 anni di distanza: quello italiano è stato letteralmente copiato dal modello inglese ed è ancora oggi identico nell’organizzazione e nei principi, un po’ meno per quanto riguarda gli esiti delle prestazioni.

L’NHS conta inoltre più del doppio dei dipendenti del SSN (oltre 1.500.000), che lo rendono la terza organizzazione pubblica più grande al mondo, dopo l’Esercito di liberazione popolare cinese e le Ferrovie indiane.

Logico, dunque, presupporre che i due sistemi presentino gli stessi difetti.

Alcune trafiletti di giornale pubblicati negli ultimi giorni confermano quest’ultima affermazione. Tre di questi, in particolare, hanno catturato la mia attenzione.

Ve ne parlo di seguito.

1. IL DEMANSIONAMENTO ESISTE ANCHE IN INGHILTERRA. 

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Il Leicester Royal Infirmary è un Trust situato nell’omonima cittadina, divenuta famosa per la vittoria della Premier League da parte della sua squadra di calcio nel 2016, che contra oltre 500 vacanze organiche tra gli infermieri. Dovendo fronteggiare una situazione di emergenza, gli infermieri sono costretti anche a pulire i bed spaces, ovvero i posti letto, e servire tè ai pazienti. Competenze che, ovviamente, potrebbero essere delegate ad altre figure, come ammesso dal chief nurse, ovvero il Dirigente infermieristico del Trust, Julie Smith. Le carenze sono state accentuate dal Brexit, che ha creato una situazione di incertezza nel personale europeo, tanto da spingere via più della metà degli oltre 450 infermieri comunitari impiegati nella struttura.

Una procedura di recruitment ha individuato già 200 infermieri filippini ed indiani disponibili ad essere assunti, ma il loro processo di inserimento deve essere ancora completato, non incontrando ancora i requisiti linguistici richiesti dall’NMC per esercitare la professione infermieristica.

La soluzione a tutto questo? Il Governo si sta muovendo su più fronti, come incentivare l’iscrizione di oltre 5000 studenti nelle Università inglesi (è chiaro, però, che bisognerà attendere anni prima che gli stessi siano pienamente operativi) e attraverso l’introduzione di una nuova figura di supporto, il nursing associate, i cui compiti e limiti, però, devono essere ancora pienamente delineati.

Un’altra soluzione potrebbe consistere nel coprire le carenze di infermieri con…fisioterapisti e farmacisti, come proposto – forse provocatoriamente – dalla stessa Smith.

2. OPERATORI SANITARI DI SUPPORTO INQUADRATI COME NURSES? FACCIAMO CHIAREZZA!

Uno studio del mese scorso, condotto dalla South Bank University di Londra, ha rivelato che, su un campione di oltre 8.000 dipendenti NHS intervistati, circa 300 (il 4%) di loro era inquadrato e si presentava ai pazienti con il titolo di nurses, addirittura – in alcuni casi – di advanced nurse, pur non essendo abilitati ed iscritti al registro NMC, ma essendo esclusivamente operatori di supporto, quali HCA, technician o nursing associate.

Benché una tale condotta non costituisca, in genere, reato – non esiste un copyright, ovvero un diritto d’autore, in merito alla qualifica di nurse, e le distinzioni di ruoli nel Regno Unito sono molto più fluide, tanto che gli HCA ed i technician possono essere abilitati ai prelievi ematici, ad esempio –  la chief executive dell’NMC Jackie Smith, alla luce dello studio, ha invitato gli alti dirigenti NHS a fare chiarezza, poiché una eccessiva confusione di ruoli può seriamente minare la credibilità e la fiducia dei pazienti verso la categoria infermieristica, mentre il Professor Leary, autore dello studio, ha proposto che la qualifica di “nurse” trovi protezione giuridica, così come già avviene negli USA ed in Australia.

3. BASTA ALLE AGGRESSIONI CONTRO I DIPENDENTI NHS!

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Il fenomeno della violenza contro il personale sanitario – non solo nei confronti dei paramedics impiegati nelle ambulanze e degli addetti ai Pronto Soccorso – ha conosciuto una rapida escalation anche in Gran Bretagna, toccando il picco di 70.000 casi nel periodo 2015-2016. Un sondaggio condotto dall’RCN su 6.000 dipendenti NHS ha rivelato che il 28% di loro aveva subito violenze fisiche negli ultimi 12 mesi.

Nel tentativo di arginare il fenomeno, la Met Police, la Polizia londinese, ha istituito presidi permanenti presso 4 grandi Trusts della capitale, mentre in quasi tutti opera personale di security.

In Scozia, l’aggressione al personale NHS costituisce dal 2005 un reato specifico, punibile fino a 12 mesi di reclusione e 10.000 sterline di multa. Attraverso una petizione online, il presentatore radiofonico dell’emittente LBC Nick Ferrari (di chiare origini italiane) ha lanciato da circa un anno una petizione volta ad estendere le medesime sanzioni in tutto il Regno Unito, raccogliendo oltre 100.000 adesioni.

E’ di questi giorni la notizia che alcuni rappresentanti dell’RCN hanno iniziato un’azione di lobby, cioè di pressione, attraverso incontri e richieste ad alcuni parlamentari, per discutere l’approvazione della legge che istituirebbe il reato anche in Inghilterra, Galles ed Irlanda del Nord.

Ma quanto guadagna davvero un infermiere inglese? Piccola guida agli stipendi degli infermieri NHS.

Il bello dell’Inghilterra è che, quando si vogliono trovare dati e statistiche ufficiali relativi alla Pubblica Amministrazione, non serve effettuare ricerche complesse: bastano pochi minuti online ed una adeguata conoscenza dell’inglese.

E’ tutto liberamente consultabile e spesso anche liberamente scaricabile.

L’immenso vantaggio che ne deriva è che non vi è molto spazio all’immaginazione od alle supposizioni.

Da lungo tempo mi capita di leggere cifre contrastanti e spesso esorbitanti sui guadagni degli infermieri inglesi. Ho creduto, pertanto, che fosse utile fare un po’ di chiarezza in materia attingendo proprio dalle statistiche ufficiali ed aggiornate dell’NHS, in modo da orientare chi fosse intenzionato a partire ora per il Regno Unito o non fosse ancora abituato a comprendere le bande ed i livelli salariali degli infermieri inglesi.

La mia, pertanto, sarà una piccola, ma il più possibile pratica ed esaustiva guida.

Per inciso, consentitemi una polemica, richiamando l’introduzione: provate a fare la stessa cosa digitando parole come “stipendio infermieri italiani” e fatemi sapere poi quanto tempo ci mettete a trovare le informazioni che vi occorrono.

Le retribuzioni, nell’NHS, sono organizzate in pay scales, livelli salariali, applicabili ad ogni categoria professionale, medici ed infermieri inclusi.

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Per questi ultimi, le trovate a questo link, tratto dal sito del principale sindacato, l’RCN (Royal College of Nursing): https://www.rcn.org.uk/employment-and-pay/nhs-pay-scales-2017-18

Per comprendere un po’ meglio la loro impostazione, bisogna partire da un presupposto: gli stipendi non sono identici in tutta la Gran Bretagna, toccando – a parità di banda e di anzianità di servizio – i loro livelli minimi nell’Irlanda del Nord e quelli massimi in Scozia. La differenza è attestabile in 400-500 sterline annue.

Va poi aggiunto che la strutturazione delle pay scales avviene per bands, bande o scalini salariali, che corrispondono anche ai diversi “scatti di carriera” previsti per gli infermieri inglesi.

Per intenderci, laddove un HCA (Health Care Assistant), l’operatore di supporto, è inquadrato generalmente nel band 3, la nuova figura del Nursing Associate, paragonabile al nostro “Oss specializzato” (con formazione complementare) rientrerà nel band 4. Un infermiere neoassunto sarà inserito nel band 5; l’infermiere senior o specialist potrà essere un band 6 o 7, un matron (figura superiore al nostro Coordinatore di Unità Operativa ed assimilabile ad un Coordinatore infermieristico dipartimentale) sarà un band 8, mentre un Dirigente infermieristico del Trust potrà essere un band 9, il livello massimo.

All’interno di ogni band sono poi previsti incrementi retributivi annui di circa 1000 sterline (pounds), legati dunque all’anzianità di servizio.

E’ su questi scatti che si sono imperniate le recenti proteste della famiglia infermieristica inglese, capitanate dall’RCN: dal 2010, infatti, il Governo aveva imposto a tutti i dipendenti pubblici, compresi quindi gli infermieri, un tetto dell’1% all’incremento annuo degli stipendi, causando pertanto perdite, in termini reali, quantificate nel 15% in 7 anni.

E’ di tre giorni fa, tuttavia, la dichiarazione da parte del Segretario di Stato alla Salute, Jeremy Hunt, che il tetto è stato finalmente rimosso: vedremo, pertanto, a quanto si attesterà il prossimo incremento.

Soddisfatte queste premesse, vorrei rispondere alla fatidica domanda: se mi trasferisco nel Regno Unito (consideriamo da ora in poi, per comodità, solo l’Inghilterra, escludendo Scozia, Galles ed Irlanda del Nord) quanto guadagnerò?

Alla questione non vi è una risposta univoca.

In primo luogo, comprovare, a seguito dell’assunzione, di aver svolto esperienza lavorativa in Italia, comporterà l’inserimento in un livello salariale adeguato agli anni di lavoro maturati: se un neolaureato, pertanto, guadagnerà poco più di 22.000 sterline nel suo primo anno di assunzione (11 sterline orarie), un infermiere che abbia già maturato 4 anni di lavoro in Italia verrà inquadrato come band 5, ma arriverà a guadagnare immediatamente oltre 25.000 sterline annue, più di 13 orarie.

Per estrapolare il guadagno (lordo!) mensile, le cifre qui indicate devono essere poi necessariamente divise per 12, non esistendo, in Gran Bretagna, gli istituti della tredicesima e quattordicesima. Ecco, allora, che per il giovane neolaureato di prima la busta paga mensile si aggirerà sulle 2.200 sterline lorde, da cui andranno detratti i contributi pensionistici e le imposte, pari a circa 600-700 pounds.

Calma. Non c’è nessun trucco, nessuna delusione.

Si tratta, infatti, di una paga base, che non considera le maggiorazioni per l’attività svolta nel weekend, nei giorni festivi (Bank Holidays) e notturna, ovvero le unsocial hours, le ore – letteralmente – sottratte alla socialità (famiglia ed amici).

Chi lavora nella realtà metropolitana di Londra, inoltre, conosce un’ulteriore retribuzione (denominata High Cost Area supplement), che compensa il maggior costo della vita nella metropoli ed ammonta a circa 450 sterline.

Prendendo a prestito una metafora dai giochi di carte, un’ulteriore “briscola” sta nel ricevere un’altra maggiorazione in caso di overtime, ovvero di sforamento del tetto di 150 ore mensili previsto contrattualmente.

Un discorso a parte merita sicuramente la prestazione di lavoro straordinario, anche in regime di Bank attraverso società interinali, le agencies: come ho già scritto in altri articoli del blog, la regolamentazione e le retribuzioni di questa attività sono completamente diverse, variando, per un turno diurno ed infrasettimanale, dalle 18 fino alle 22-23 sterline lorde orarie, a seconda dell’Agency per cui si svolgono le proprie prestazioni.

Anche un infermiere assunto come dipendente a tempo indeterminato presso un Trust NHS può lavorare in regime di Bank nella propria Unità Operativa, in una diversa all’interno dello stesso Trust, per un Trust differente o persino nel settore privato: non vi sono limiti in materia, ma approfondirò ulteriormente il tema in una successiva guida.

In buona sostanza, la propria payslip, ovvero la busta paga, potrà tranquillamente superare, dopo un periodo di permanenza in UK, le 2.000 sterline, questa volta nette. Tenete però presente che, per ragioni che ancora in parte mi sfuggono, è meglio che non spargiate troppo la voce su quanto intascate ogni mese, poiché, se da un lato le informazioni ufficiali sono liberamente fruibili e condivisibili, parlare dei guadagni personali, o lamentarsi per essi, anche e soprattutto con i propri colleghi, non è un’abitudine vista di buon occhio.

Non solo tra i dipendenti NHS.

L’informazione infermieristica italiana vissuta all’estero.

Come promesso, pubblico qui di seguito la relazione tenuta a Matera il 7 Ottobre, sul tema del futuro dell’informazione infermieristica in Italia. Con due avvertenze: una riguarda chi era presente a Matera. Il mio discorso è stato molto “emozionale”, volendo tradurre un comune termine inglese, per cui, preso dalla foga di compiere una missione impossibile – condensare quasi tre anni di vita e lavoro in 15 minuti – ho omesso alcuni passaggi che invece ora leggerete qui di seguito.

In più, questa è una versione edulcorata rispetto a quelle iniziali, che ho modificato molte volte cercando di frenare, appunto la spinta dell’emotività. Quando alla malinconia dell’essere lontano dalla propria terra si aggiunge l’amarezza nel vedere sterili discussioni, polemiche e divisioni, talvolta di livello decisamente volgare, può nascere un sentimento di rabbia che è meglio mettere a tacere.

Ringrazio di nuovo Angelo Riky Del Vecchio, Gioacchino Costa, tutti i membri di Assocare (preso dall’entusiasmo vi ho dimenticato, chiedo scusa!) per avermi concesso questa opportunità ed avermi chiamato oggi ad essere portavoce, anche solo per una volta, di una collettività infermieristica diventata negli ultimi 5 anni numericamente davvero importante.

In effetti: chi sa quanti infermieri italiani sono registrati, secondo le ultime statistiche ufficiali, presso il registro inglese, l’NMC?

Ve lo dico io: 5080, di cui più di 1.500 richieste riguardano solo il periodo 2016/17.

E’ vero che il numero di nuove richieste da parte di infermieri comunitari e’ crollato dopo il Brexit, passando dalle circa 1.300 domande del mese di Aprile 2016 alle sole 40 dell’Aprile 2017, ma i numeri sono da imputare all’introduzione dell’IELTS piuttosto che al Brexit di per sé, tanto che, da qualche settimana, si sta valutando la sua sostituzione con un altro test linguistico specifico per le professioni sanitarie, l’OET (l’Occupational English Test).

La grande maggioranza dei colleghi presenti in UK è dipendente in maniera permanente di un Trust, ovvero di una organizzazione equivalente alla nostra Azienda ospedaliera, operante all’interno del Sistema Sanitario inglese, l’NHS.

Insomma, un flusso in entrata enorme, che ha segnato anche un’emorragia per l’Italia.

Ma non si è trattato solo di una perdita, della solita questione dei “cervelli in fuga”, perché l’emigrazione ha posto le premesse per una grande opportunità di entrare a stretto contatto e di confrontarsi con quello che rappresenta il più antico e famoso Sistema sanitario pubblico al mondo: l’NHS.

Il logo in basso indica un’organizzazione nata nel 1948 e che conta ad oggi circa un milione e mezzo di dipendenti, più del doppio di quelli addetti presso il SSN. E’ il più grande sistema sanitario del mondo e la terza organizzazione pubblica al mondo, dopo l’Esercito popolare di liberazione cinese e le Ferrovie indiane.

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Tra I suoi dipendenti, si contano circa 300.000 infermieri, di cui un decimo comunitari.

Ritorneremo tra poco sull’importanza di questo logo.

Ma perché è così importante conoscere e rilevare similitudini e differenze, non solo sul piano clinico, ma anche organizzativo, tra l’NHS ed il nostro Sistema Sanitario Nazionale?

E’ il motivo per cui ho dato vita al mio piccolo blog, che approfondisce la realtà del sistema sanitario inglese con gli occhi di un infermiere, (da cui il titolo “Il mio Regno per un infermiere, storpiatura ironica del celebre motto del Riccardo III di Shakespeare “Un cavallo, un cavallo, il mio Regno per un cavallo!”). Cerco di fare informazione e cultura per I colleghi emigrati e per voi che siete qui in Italia.

In pochi sanno, infatti, che il nostro SSN, nato 30 anni dopo, è stato realizzato sul modello dell’NHS: ne rappresenta a tutt’oggi una copia, ispirandosi, nei suoi principi, allo stesso stesso modello, denominato Beveridge dal nome del suo ideatore, che volle creare un sistema di servizi sanitari accessibile a tutti, in relazione ai loro bisogni di salute e non alle loro disponibilità economiche.

NHS

SSN

Anno di nascita

1948

1978

Numero dipendenti

1.500.000

650.000

Infermieri

285.000

270.000

Quindi l’NHS presenta ad oggi le stesse caratteristiche ed anche gli stessi difetti, tra cui perenni carenze organiche, specie nel personale infermieristico (si parla di un fabbisogno stimato tra 30 e 40.000 infermieri nella sola Inghilterra), eccessiva burocratizzazione e riduzione in termini reali degli stipendi, non solo quelli degli infermieri, alle prese con il pay cap (il blocco dell’1% all’aumento degli stipendi, n.d.A.) sin dal 2010.

D’altro canto, tuttavia, l’NHS continua ad essere protetto e quasi venerato dai suoi stessi cittadini, tanto da essere stato definito ”religione nazionale”, per cui, alla fine dei conti, I vari Governi investono sempre enormi risorse nel Sistema e vengono ideate soluzioni innovative per sopperire alle sue carenze. E indovinate un po’ chi e’ spesso al centro di queste innovazioni? L’infermiere.

Vi presento di seguito una carrellata di queste innovazioni, di cui ho gia’ trattato nel mio blog.

Quelli che vedete in questa immagine sono paramedici.

ACTAS_Paramedics-photo

No, non ho sbagliato traduzione. Sono professionisti che seguono un percorso accademico simile, ma parallelo a quello degli infermieri. Possono intubare, eseguire intraossee e somministrare farmaci senza prescrizione, sulla base di protocolli operativi, quelli per cui diversi medici del 118 di Bologna sono stati sospesi dall’Ordine, facendo così nascere l’iniziativa del movimento Noisiamopronti.

Per rimanere in tema di protocolli operativi, vi presento poi i PGDs, i Patient Group Directions, che altro non sono che prescrizioni collettive per procedure di routine.

Gli infermieri che hanno dimostrato, a seguito di colloquio, di conoscere i contenuti del PGD vengono abilitati a somministrare farmaci in assenza di prescrizione.

Io stesso lo faccio ogni giorno.

Conoscete inoltre le procedure di see and treat, ma pochi sapranno che altre novità nei nostri triage di pronto Soccorso, sono basate sul Sistema ECDS (Emergency Care Data Set), ancora una volta elaborato in Inghilterra e tuttora in questo Paese in fase di implementazione.

Ancora: il pre-triage, appena introdotto per la fase di sperimentazione a Mantova e che sta facendo tanto discutere perché vede la presenza di un medico alla porta, prima del triagista, per allontanare I pazienti non eleggibili per il Pronto Soccorso, è il frutto di un’idea applicata con grande successo da qualche mese al Queen’s Hospital di Romford, nei dintorni di Londra, con beneficio di tutti, medici ed infermieri.

Queens_hospital_london

Infine: la brandizzazione del logo NHS, la sua trasformazione in marchio, in entità scollegata dall’odiata politica e dalle istituzioni locali e nazionali, con effetti così positivi nella percezione da parte dell’opinione pubblica che la suddetta trasformazione è stata recentemente proposta anche per il SSN, tramite petizioni online.

Insomma, di sicuro, tra le “alte sfere”, c’e’ qualcuno che studia l’NHS e ne trapianta le idee più innovative per rendere il servizio più efficiente. La comunità infermieristica italiana, invece mi ha mostrato di essere del tutto ignara non solo delle similitudini tra I due sistemi, ma anche delle grandi opportunità di confronto e scambio che l’emigrazione di massa ha creato negli ultimi 5 anni.

Il fatto è che anche i media, quando si approcciano alla questione dell’emigrazione, lo fanno spesso in modo non oggettivo, anche per colpa dei miei stessi colleghi emigrati, che, quando intervistati , generalizzano troppo la loro esperienza personale e dipingono imprudentemente il Regno Unito come il Paese del Bengodi dove si guadagnano stipendi da favola, o come un piovoso inferno di ignoranti sanitari, come ho potuto constatare in molti commenti online. Manca, insomma, una visione del quadro più bilanciata.

Nel contesto inglese, comunque, lavora, studia e cresce, facendo carriera, una collettività di infermieri italiani, che dovrebbe essere comunità, che dovrebbe formare un sistema, ma che invece non vi riesce affatto, essendo ancora culturalmente incapace di unirsi professionalmente, proprio come avviene in Italia.

Perchè non ci dobbiamo dimenticare che nel nostro DNA di Italiani è insito quello che lo storico Ginzburg definiva “familismo amorale”, ovvero la tendenza a coltivare il proprio orticello ed a disinteressarsi del bene pubblico.

Ecco allora che quando ho proposto, un paio d’anni addietro, sulla pagina Facebook della più importante community di infermieri espatriati in UK, di costituire un’associazione che mettesse in piedi quello che ho definito “consolato Ipasvi in Gran Bretagna”, ho ricevuto 5 commenti: uno di mio fratello e 4 di miei coinquilini (italiani anch’essi) che mi prendevano per i fondelli.

Salvo poi veder pubblicate online, qualche mese dopo, storie di italiane che subiscono mobbing e discriminazione sul luogo di lavoro.

Che dire? Rivolgo a chiunque incontrasse questi problemi un sincero in bocca al lupo – potrei essere io nei loro panni, un giorno -, nonché di trovare un buon legale tramite sindacato, perché tanto non esiste nessuna associazione od organizzazione fatta da italiani e per gli italiani in grado di tutelarci.

Non tralascio, poi, i numerosi post di richieste di informazioni sulla documentazione necessaria a farsi riconoscere il periodo di lavoro svolto all’estero, in funzione di concorsi pubblici.

Gli infermieri italiani in Inghilterra hanno quindi un estremo bisogno di rappresentatività, di persone che conoscano la loro condizione e che tutelino i loro diritti e le loro aspettative, sia nel Regno Unito, che in vista di un eventuale rientro in Italia.

Bisogna creare scambi permanenti di informazione, anche giornalistica e comunicazione, vitali anche per la famiglia infermieristica italiana, che, per quanto recalcitrante all’apertura ed al dialogo, essendo chiusa nello sforzo di risolvere gli evidenti problemi di casa, ha bisogno di trovare spinta anche da questo confronto, non solo con gli emigranti italiani, ma anche con la controparte inglese, per non perdere un altro treno fondamentale.

Ma va detto anche che gli infermieri italiani in Inghilterra leggono e giudicano quanto avviene in Italia e quello che viene scritto. I social media, Facebook in particolare, hanno il pregio di essere una piazza che mostra vizi e virtù in modo spudorato. E’ difficile nascondere la propria natura per molto tempo su di essi.

Ho chiesto qualche opinione ad alcuni colleghi e la reazione che più mi ha colpito è stata: ma perché continuano a litigare, quando dovrebbero essere uniti?

Una reazione quasi tenera nella sua ingenuità, viste alcune incresciose gazzarre che si sono consumate nelle scorse settimane e su cui preferisco stendere un velo pietoso, ma alle quali ho assistito attraverso lo schermo del mio PC.

Volevo inserire nella mia presentazione l’immagine del sindacalista sulla tazza del gabinetto, ma è stata tanta la repulsione che alla fine mi sono rifiutato.

Non sono queste le persone con cui dovremmo costruire alleanze strategiche, con cui dovremmo combattere le nostre battaglie. Noi che viviamo all’estero, lo cogliamo forse meglio, perché forse non comprendiamo certe dinamiche, ma vi vediamo dall’esterno.

Io vorrei invece vedere queste copertine, queste foto.

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Osservate questa, in particolare.

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E’ una donna non più giovane, ha i capelli arruffati dal vento.

Non ha make-up, non c’è Photoshop.

Mi sono innamorato di questa foto, perché mostra una donna normale, che potreste, se foste inglesi, trovare nell’ambulatorio sotto casa, ma che svolge così maledettamente bene il suo lavoro da essere finita sulla copertina di una rivista inviata ad oltre 400.000 iscritti.

Sono queste le immagini e gli esempi che vorremmo rappresentassero gli infermieri italiani.

C’è un motivo di fondo.

Esistono due categorie di emigranti.

Ci sono molti giovani che vengono qui “per fare esperienza”, spesso senza sapere cosa li aspetta, che speranzosamente – o forse un pò ingenuamente – tornano in Italia alla prima occasione dicendo: cerco di vincere un concorso pubblico, poi mi riavvicino.

Chi come me, invece, emigra per seguire le sue aspettative e le sue ambizioni lo fa spesso per restarci a lungo, pur pagando un prezzo personale carissimo.

Ma lo fa per provarci, per tentare il botto, per eccellere.

Potrei citarvi mille esempi di italiani che vivono all’estero e risplendono nei vari settori della scienza e della cultura. Io non sono ancora tra questi – ci mancherebbe – , ma spero in futuro di esserci.

Per ora vivo come tanti la vita dell’emigrante, cari colleghi, e non è necessario andare all’estero per capirla: qualcuno di voi la vive o l’ha vissuta qui in Patria, e sa che spesso è una vita venata di malinconia, quando talvolta non di vera e propria sofferenza per il distacco subito.

Ma la dimensione dell’emigrante straniero è peculiare; l’italiano all’estero recupera il suo senso di italianità ed unità, vi osserva dall’esterno e pensa che la famiglia infermieristica in Italia riceve già continui attacchi da altre categorie, per cui bisogna mettere da parte le divisioni e combattere insieme per la causa comune.

Allora, quando un giorno la famiglia infermieristica italiana sarà unita e compatta, sarò fiero di riportare insieme a tanti altri il nostro immenso bagaglio di conoscenze a beneficio di tutti.

Quel giorno deve ancora arrivare e forse è lontano.

Ma quel giorno a Bologna saranno davvero pronti, voi sarete pronti, noi saremo pronti a tornare.