Essere infermieri gay: Inghilterra ed Italia a confronto. 

Nei prossimi mesi l’RCN, il principale sindacato infermieristico inglese, celebrerà con una serie di eventi la diversità nel nursing, ovvero esplorera’ le esperienze vissute, all’interno della comunità infermieristica, non solo dagli infermieri appartenenti alle cosiddette “minoranze etniche ( in particolar modo quella africana), ma anche dai colleghi LGBT (acronimo che sta per Lesbian – Gay – Bisexual – Transgender). 

Molti sono i passi che devono essere ancora compiuti affinché l’accettazione di queste comunità spesso tristemente definite” minoranze”, diventi riconoscimento e infine normalità, specie nel nostro Paese.

Dal mio punto di vista, credo che il problema sia di chi se lo pone: la serietà e la professionalità,  specie (ma non solo) in un ambiente di lavoro, sono del tutto dissociate dall’origine etnica o dall’orientamento sessuale. Chiunque si fondi ancora sui vecchi pregiudizi e rifiuti, per esempio, l’assistenza di un infermiere omosessuale (o non gli offra il posto di lavoro in base a ciò) non farà altro che privarsi deliberatamente di una possibilità. 

Quella di poter crescere insieme verso un futuro migliore. 

Anticipando le iniziative dell’RCN, ho approfittato dell’amicizia con Andrea Fulgenzi, infermiere pescarese trapiantato a Manchester che ha fatto coming out da tempo, per chiedere la sua opinione e farmi raccontare le sue esperienze sul tema.

Lo ringrazio pertanto della sua collaborazione e vi lascio alla sua testimonianza. 

Essere infermieri gay in Italia non è attualmente facile per molteplici motivi: una forte presenza cattolica nel nostro Paese sicuramente ha imposto nella mentalità popolare l’immagine della famiglia tradizionale; uno stereotipo misogino rende ancora oggi difficile eradicare la figura dell’infermiera sexy (molto frequente in alcuni film degli anni ’70); è poi diffusa una cultura “machista” che toccò il suo apice durante il periodo fascista. 

Troppo spesso si sentono atti di aggressione e violenza omofobica e transfobica a danno di tutta la comunità LGBT, atti di bullismo nelle scuole a danno di ragazzi e ragazze che vengono derisi e spesso indotti ad atti di autolesionismo, più o meno gravi. 

Molti sono stati i casi di licenziamenti, in vari settori, di persone LGBT solo in base all’orientamento sessuale. A maggior ragione nell’ambito della sanità, luogo ancora più delicato in cui ci si deve fidare delle persone che si prenderanno cura di te. 

La professione infermieristica è tradizionalmente stata rivolta al sesso femminile; anche in Italia, solo dal 1971 gli uomini sono stati autorizzati a potersi iscrivere al vecchio corso regionale, poi divenuto Diploma Universitario ed infine corso di laurea. Credo che negli ultimi anni vi sia stato un notevole avvicinamento del mondo maschile alla professione infermieristica. 

I tempi avanzano e cambiano e la società si evolve (anche se non dovunque). 

Spesso e volentieri, però, in Italia l’abito fa il monaco. 

Il pregiudizio e, spesso, l’ignoranza tendono ad dequalificare le persone LGBT come inferiori e inaffidabili, come se il loro orientamento sessuale incidesse sulla qualità delle cure che dovrebbero dare ai loro pazienti. Un infermiere gay, in Italia, avrebbe molte difficoltà sia a farsi accettare dai suoi colleghi (medici e altri infermieri) o peggio ancora dai propri pazienti.

A parte qualche battutina sciocca nata e morta subito, tuttavia, non ho mai avuto particolari problemi sul posto di lavoro, mentre in una circostanza (fuori dal contesto lavorativo) sono riuscito a sfuggire ad un tentativo di aggressione,  peraltro da parte di ragazzi che conoscevo. 

A tal proposito, credo però che in caso di aggressione, verbale o fisica, un infermiere LGBT in Italia non sarebbe a mio parere minimamente supportato e difeso, sia da un punto di vista fisico, sia da un punto di vista legale (penso alla proposta di legge contro l’omo-transfobia che ancora non viene approvata da anni ).

In inghilterra la situazione è decisamente diversa. Durante la compilazione dei moduli per un colloquio di lavoro, tra i vari campi, viene richiesto ( solo se uno vuole scriverlo, non è obbligatorio) di dichiarare il proprio orientamento sessuale, in quanto l’Equality Act del 2010 tutela tutti i dipendenti da ogni tipo di discriminazione ( razziale, sessuale, culturale, religiosa, di genere, di orientamento sessuale), ma anche in caso di aggressione (verbale o fisica).

Gli ambienti di lavoro sono totalmente friendly; onestamente, a nessuno importa se uno sia gay o meno; ciò che conta è svolgere con serietà e professionalità il proprio lavoro. Nel mio caso, presso il CMFT (Central Manchester Foundation Trust), esiste addirittura un gruppo LGBT di dipendenti ospedalieri che si riuniscono bimestralmente per parlare delle attività della comunità e degli eventi cittadini, tra cui l’evento più importante dell’anno, ovvero il Manchester Pride. 

Durante questa manifestazione, nel corteo che si svolge nel centro città, ci sono anche rappresentanti dell’NHS a supporto del Pride: medici, infermieri, paramedici delle ambulances; tutte le figure professionali, LGBT e non, sfilano unite per mostrare il proprio orgoglio di poter essere liberi e se stessi nel proprio posto di lavoro. Essere infermieri gay in UK, pertanto, non è un problema, e credo mai lo sarà. Tutti i miei capi, i miei colleghi e le altre figure professionali del mio reparto sanno che sono gay, ma onestamente non gliene importa più di tanto. All’inizio della mia esperienza lavorativa qui in UK, ho riflettuto molto (ed ero anche molto intimorito) sul pensiero di fare coming out; in verità diciamo che, nel mio caso, non ci vuole molto a capire il mio orientamento sessuale, ma quando l’ho raccontato ai miei colleghi, o quando i miei capi l’hanno saputo, la risposta è stata neutrale. Lo scorso anno, in occasione del Pride 2016 mi ero anche ossigenato i capelli, diventando biondo platino. Anche lì, la reazione è stata quasi di indifferenza, salvo poi ricevere complimenti per il fatto che con i capelli biondi stavo bene, a detta di tutti. 

Per cui, anche da un punto di vista socio-culturale, essere infermieri e gay in UK, è molto meglio che in Italia (non che l’ NHS sia perfetto, sia ben chiaro; molte sono le cose che andrebbero riviste, ma cerco di non lamentarmi e di prendere ciò che di buono ha da offrire). 

La Church Of England (quella che in Italia è definita Chiesa Anglicana, N.d.A.) mi appare poi molto più laica e meno bacchettona rispetto alla Chiesa Cattolica Romana. 

Essendo infine l’UK un melting pot di religioni e culture totalmente differenti, l’essere gay è solo una caratteristica in più, e non un difetto o una macchia di cui vergognarsi”.

Gli schermi degli smartphone stanno alimentando un’epidemia di miopia.

La notizia è di quelle che si leggono di solito su un trafiletto di giornale, ma in questo caso merita una lettura attenta perché la fonte è estremamente autorevole, ovvero un consultant (figura paragonabile a quella del primario) in oftalmologia pediatrica, presso il Moorfields Eye Hospital di Londra. Mi sono preso la briga di tradurla per voi, ma potrete leggere l’originale linkando all’articolo dell’Evening Standard riportato qui sotto:

https://www.standard.co.uk/news/health/smartphone-screens-are-fuelling-an-epidemic-of-shortsightedness-a3638036.html

Una specialista del Moorfields Eye Hospital ha lanciato oggi l’allarme: sbirciare gli smartphone dentro casa e non uscire a giocare sta alimentando la miopia tra i giovani londinesi.

Annegret Dahlmann-Noor ha affermato che la miopia progressiva – il peggioramento della vista dei giovani pazienti nella fase di sviluppo – è due volte più comune nei bambini delle scuole primarie rispetto a 50 anni fa.

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Ciò ha portato ad un aumento delle richieste di consulenza da parte degli optometristi di Londra.

L’oftalmologa ha dichiarato: “I genitori sono molto preoccupati per il numero di ore spese dai figli sui dispositivi.

“Mi dicono che il loro bambino trascorre quattro ore al giorno su uno smartphone o iPad – in genere sono gli schermi più piccoli quelli che preoccupano maggiormente. I dettagli sono molto piccoli, devono tenere gli occhi in una fase di messa a fuoco costante per vedere le cose chiaramente per ore e ore.

“È molto spesso un tema regolare della consulenza. Sembra che le persone che studiano molto o trascorrono molto tempo sui dispositivi, diminuiscano l’attività all’aperto e non godano dell’effetto diretto della luce solare sulla crescita dell’occhio nei primi anni di vita.

La miopia nei bambini delle scuole primarie è salita al 16,4 per cento dal 7 per cento negli anni Sessanta. I sintomi includono il bambino che si lamenta di una vista offuscata, oppure sono gli insegnanti che notano il problema di uno studente che copia in modo errato. I bambini devono essere incoraggiati ad uscire per 30 minuti ogni 90 minuti in casa. Altrimenti, i bulbi oculari possono crescere leggermente di più, rendendo le immagini sfocate.

La miopia è anche genetica, ma la signora Dahlmann-Noor ha affermato che, in questo caso, condizione “inizia prima e progredisce più velocemente”. Questi pazienti possono inoltre essere a rischio di glaucoma.

La Dott.ssa Dahlmann-Noor ha sostenuto che un altro problema è che i genitori spesso studiano la condizione dei loro figli online ed acquistano farmaci nel tentativo di trattare il problema.

“Per noi è frustrante che le persone vengano in questi giorni con stampe da siti Internet, venendo a conoscenza di studi randomizzati di controllo che si stanno conducendo a Singapore o che acquistino gocce di atropina laggiù”, ha detto. “Portano qui i propri farmaci e poi vogliono che i figli siano monitorati a Londra.

“Chiedono anche speciali lenti a contatto che ridisegnano la forma della cornea durante la notte, ma c’è un elevato rischio di infezione (nell’indossare questi dispositivi, N.d.A.)”.

Bene. Credo che ora sia il caso di uscire a fare una passeggiata.

Ahia, troppo tardi.

Intervista a Diego Santoni, agency nurse a Londra

Ha destato molto scalpore, alcune settimane addietro, la denuncia, da parte dell’Ipasvi di Pescara, di una (falsa) infermiera interinale che esercitava abusivamente la professione presso il locale nosocomio, avendo prodotto falsi documenti.

Sono sempre stato personalmente contrario all’assunzione di infermieri “tappabuchi”, sia in Italia che in Inghilterra. Non ritengo che un professionista possa espletare al meglio la sua professionalità in un contesto che non conosce, magari con pazienti che presentano problematiche cliniche che ha di rado incontrato e credo perciò che il rischio di commettere errori o di non prestare, in generale, un’assistenza adeguata aumenti esponenzialmente.

Riconosco, eventualmente, solo la possibilità di effettuare prestazioni straordinarie nella propria Unità Operativa o Dipartimento (cosa che faccio anch’io da anni) e comunque sempre “cum grano salis”, per evitare un eccessivo affaticamento.

In ogni caso, in Inghilterra la realtà degli Agency nurses, ovvero degli infermieri interinali che lavorano a chiamata per conto di società di intermediazione, è ormai ben consolidata e le retribuzioni superiori a quelle dei dipendenti, anche permanenti, di un Trust, ha spinto molti infermieri a scegliere quello dell’Agency come unico percorso lavorativo. Chiediamo allora più dettagli in merito a chi conosce questa realtà in prima persona, anche per dissipare molti dubbi ed informazioni scorrette ricevute dai colleghi che vivono in Italia.

E’ questo il caso di Diego Santoni, che ho intervistato e che ringrazio.

 

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Presentati brevemente.

Mi chiamo Diego Santoni, sono originario di Jesi ma vivo e lavoro a Londra da gennaio 2015. Ho lavorato per circa un anno per il Moorfields Eye Hospital e poi presso il Royal London Hospital in una Unità Operativa di Acute Medicine (medicina respiratoria ed endocrinologica). Da circa due mesi lavoro esclusivamente come agency nurse.

Come sei stato contattato dall’agenzia per cui lavori?

Sono venuto a conoscenza dell’agenzia tramite un collega ed ho richiesto un colloquio conoscitivo, che mi è stato concesso in pochi giorni. Prima di iniziare a lavorare ho dovuto produrre la documentazione necessaria per dimostrare che potevo svolgere la professione, tra cui il certificato di laurea, il numero di iscrizione presso il registro NMC e le referenze di un paio di colleghi.

Come vieni contattato per coprire i turni? 

L’agenzia per cui lavoro contatta gli infermieri iscritti prevalentemente tramite SMS od e-mail, ma so di altre che hanno un sistema di prenotazione online, sul proprio website. Mi inviano messaggi ed e-mail quotidianamente in merito alle vacancies (richieste) che hanno per gli ospedali convenzionati (pubblici e privati), ma io stesso posso contattarli telefonicamente, dichiarare la mia disponibilità ed essere prenotato per uno specifico turno di lavoro.

In genere richiedo di andare sempre negli stessi due – tre ospedali, perché conosco meglio gli ambienti di lavoro e la loro organizzazione. Una volta completato il turno di lavoro, chiedo al personale dell’Unità Operativa la compilazione e la firma di un modulo per attestare l’esecuzione della prestazione. Rientrato a casa, invio poi il modulo all’agenzia nuovamente tramite posta elettronica.

Come vieni retribuito? A quanto ammonta la retribuzione oraria?

Il pagamento della prestazione viene effettuato tramite bonifico sul mio conto corrente ogni venerdì, ma se l’agenzia è in ritardo per l’accreditamento (per esempio perché ho lavorato giovedì) allora il versamento avviene il venerdì seguente.

La retribuzione oraria è legata a molte variabili: Trust richiedente, agenzia di intermediazione, turno di lavoro, fascia (band) di inquadramento contrattuale.

In genere oscilla tra i 18-20 pound (con la mia agenzia si inizia da 22-23 pound) orari per un turno di lavoro diurno ed infrasettimanale, per arrivare ai circa 30 di un turno domenicale e/o festivo, relativamente ad un band 5 (la fascia iniziale di inquadramento degli infermieri in UK, N.d.A.). Le somme indicate sono ovviamente lorde, per cui mi verranno poi detratte alla fonte le contribuzioni previdenziali e le imposte, come se fossi un dipendente dell’agenzia.

In più, le cifre a cui ho accennato riguardano i Trust dell’NHS, ma nel privato sono superiori.

Insieme alla retribuzione, mi viene poi sempre consegnata una busta paga (payslip).

Come valuti il lavoro dell’agency nurse? Che differenze ci sono rispetto al dipendente di un Trust?

Il vantaggio di essere un agency è che si lavora quando e se si ha voglia. Più si ha determinazione, più si guadagna. Non ci sono limiti di orario e si possono incassare somme notevoli, anche doppie rispetto a quelle di un infermiere permanente di un Trust NHS di pari fascia.

Sull’altro piatto della bilancia, bisogna considerare lo stress e l’affaticamento, per cui occorre avere la capacità di dosare le proprie energie, anche per contenere il rischio di errori.

Bisogna inoltre essere molto guardinghi ed attenersi strettamente alle indicazioni del nurse in charge e dei colleghi, perché non si conoscono gli ambienti di lavoro ed i pazienti. Appunto per questo, scelgo sempre gli stessi Trust e le stesse Unità Operative.

Ti sentiresti di consigliare la carriera dell’agency nurse ai colleghi italiani nel regno Unito?

Francamente il termine carriera è improprio, perché non ci sono avanzamenti o progressioni di alcun genere. Per questo lo consiglio a chi vuole vivere una esperienza temporanea in Inghilterra o come secondo lavoro, mentre non lo suggerisco affatto a chi vuole vivere e lavorare per un lungo periodo in questa Nazione.

Il graphic design può salvare la tua vita?

E’ scontato che farmaci od interventi chirurgici abbiano salvato, ad oggi, milioni di vite.

Ci siamo mai chiesti, tuttavia, non solo in veste di operatori sanitari, ma anche di semplici cittadini, quanto la comunicazione con i pazienti sia stata storicamente determinante per raggiungere lo stesso risultato?

Nella società attuale, fondata sull’immagine, sappiamo bene, poi, che un messaggio può essere veicolato e recepito attraverso l’uso della grafica più rapidamente che con le parole.

Di qui il titolo di una piccola, ma straordinariamente stimolante esposizione temporanea allestita fino al 14 gennaio 2018 presso la Wellcome Collection di Londra, un museo-fondazione tradizionalmente dedicato alle curiosità scientifiche e mediche e che mi sono oggi precipitato a visitare, avendone letto tempo fa la presentazione su un giornale ed avendo constatato che prometteva di essere ricca di spunti e riflessioni non solo per chiunque si occupi di sanità, ma anche per gli appassionati di pubblicità e design.

Le aspettative, in effetti, non sono state tradite: consiglio caldamente, se siete in vacanza o vivete a Londra, di farci un salto, anche perché – come da migliore tradizione inglese – la mostra è completamente gratuita.

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Il totem all’ingresso dell’esposizione.

Nella circa mezz’ora di visita, la vostra attenzione sarà colpita da immagini, video, oggetti che esplorano un tema singolare ma davvero affascinante e che fonde mondi diversi: le numerose e varie applicazioni del design e della grafica pubblicitaria alla sanità, nei diversi contesti della prevenzione, ma anche dell’informazione al cittadino ed al paziente, dentro e fuori le strutture ospedaliere, per finire con gli studi di grafica relativi al packaging del prodotto sanitario per eccellenza: il farmaco.

Iniziamo da una considerazione fondamentale: non esiste prevenzione senza informazione. Affinché quest’ultima sia efficace, deve essere chiara e diretta. Talvolta provocatoria. Logico, quindi, che in ogni Paese d’Europa e del mondo le migliori menti pubblicitarie si siano spese per realizzare campagne che, talvolta, hanno avuto un impatto superiore alle stesse aspettative e destinato a durare per molti anni.

Ancora oggi, ad esempio, le sonorità inquietanti e disturbanti di questa campagna ministeriale di prevenzione contro l’AIDS di fine anni ’80 echeggiano nella mia mente:

Chi non si ricorda, poi, di quest’altra, che fu anche oggetto di parodie comiche?

Non c’è dubbio che trasmettere angoscia paga: chi ha un’età compresa tra 30 e 50 anni sa bene quanto grande fosse lo spauracchio dell’AIDS negli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo e quanto siano stati efficaci simili spot per diffondere la cultura dell’uso del preservativo nei rapporti sessuali, dapprima oggetto di tabù, come ben evidenziato nel secondo.

Sappiamo anche bene, purtroppo, che in tempi recenti l’AIDS ed altre malattie veneree, come la sifilide, stanno tornando a diffondersi proprio per effetto, tra le altre cose, dell’assenza di campagne informative e della mancata percezione, soprattutto nei giovani, della pericolosità di abitudini a rischio.

La “strategia della paura” costituisce un approccio psicologico molto diffuso nelle campagne di comunicazione, tanto da trovare seguito anche nella lotta al tabagismo (ogni fumatore che dia uno sguardo ai propri pacchetti noterà le scioccanti, ma reali, fotografie di pazienti colpiti da gravi patologie correlate al consumo di sigarette) e nella promozione della donazione di organi.

A tal proposito, date un’occhiata a questa recente pubblicità scozzese e notate le similitudini, nell’impostazione concettuale, con quella italiana sulla prevenzione dell’AIDS:

 

Molte furono le richieste di bandire questo spot, proprio per il senso di inquietudine trasmesso, ma il Governo scozzese, con visione lungimirante, decise comunque di mandarlo in onda, sostenendo che altre campagne più “soft” avevano fallito l’obiettivo. Nei due anni seguenti i fatti diedero ragione ai promotori dell’iniziativa: il numero dei cittadini iscritti al registro scozzese per la donazione degli organi incrementò addirittura del 242%.

La grafica, ovviamente, riveste un’importanza essenziale anche nella comunicazione con il paziente all’interno delle mura ospedaliere, iniziando dalla loro stessa architettura.

Mi spiace constatare, da questo punto di vista, che tra l’Italia ed i Paesi anglosassoni esiste ancora un divario importante e che va colmato sotto molti aspetti.

In primis, relativamente all’orientamento del cittadino-paziente nel contesto ospedaliero. Dove si trova il reparto X? Dove trovo lo studio del Dott. Y? Quante volte, come infermieri, ci siamo sentiti porre questa domanda, che spesso ci ruba tempo prezioso?

Osservate questo sistema di segnali in uso nell’ospedale giapponese di Umeda e nel policlinico giapponese di Katta.

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Anche nei nostri ospedali (per esempio al Moorfields Eye Hospital, ma anche in Italia, a Pescara) è presente una segnaletica colorata, sul pavimento, che guida letteralmente i pazienti lungo i corridoi della struttura, ma in Giappone i designer hanno compiuto un passo in avanti: l’uso estensivo del colore bianco trasmette un’idea di ordine e pulizia; il colore rosso delle indicazioni risalta ed è di facile lettura; le scritte presenti sui totem o sui montanti delle porte sono in cotone (ve lo dico io, anche se non si nota) e sono rimuovibili e lavabili.

Senza contare che le indicazioni sono bilingue, come in molti Paesi (in Spagna, ad esempio, ma non in Italia), per agevolare anche i pazienti stranieri, sempre più numerosi.

Magari più che di pulizia si riceve un’impressione di futuristica e fredda asetticità, ma questo è solo il mio punto di vista.

Le immagini trasmettono concetti ed informazioni, insomma, in maniera più efficace delle parole, tanto che nell’approccio con il paziente accade sempre più spesso che medici ed infermieri comunichino servendosi di disegni, fotografie, modellini di organi o sezioni del corpo umano. Questo approccio snellisce i tempi di visita, ottimizza il trattamento ed aumenta la compliance del paziente, soprattutto quando quest’ultimo non comprende la lingua del sanitario od è illetterato.

Date uno sguardo, per esempio, alle tavole denominate Communi-card, sviluppate dall’agenzia di design Poulin + Morris negli anni Ottanta per il Mount Sinai Hospital di New York proprio per rendere più semplice, per il paziente, la descrizione della sua sintomatologia e soprattutto per localizzare la natura del dolore sofferto. Ad oggi, le Communi-cards (ve ne sono di due tipi) sono in uso in oltre 150 ospedali negli Usa ed in Canada.

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Oltre ad essere bilingue ( in inglese e spagnolo, le tavole visualizzano graficamente le più comuni domande che possono essere rivolte ad un paziente, il quale può rispondere semplicemente indicandole.

La semplicità e la chiarezza nella fruizione del prodotto visivo sono anche alla base dei numerosi leaflets, ovvero dei libretti illustrativi, che in Inghilterra e nei Paesi anglosassoni in generale permettono ai pazienti di informarsi sulla loro condizione o sulla procedura chirurgica che andranno ad affrontare. Ogni Trust ne mette liberamente a disposizione davvero un’infinità.

Il Moorfields peraltro, rivolgendosi ad una “clientela” affetta da impedimenti visivi, ha elaborato per i suoi leaflets una serie di accorgimenti, ad esempio tipografici, mirati ad agevolare la lettura.

E’ comunque sul packaging, ovvero sul confezionamento, del farmaco che si è maggiormente concentrata la creatività dei pubblicitari, non solo nella scelta dei caratteri (fonts) dei prodotti, ma anche sulla scelta dei colori, delle dimensioni e della forma della scatola, che dovevano restituire, anche in questo caso, un’idea di chiarezza e praticità nell’uso del prodotto.

Ecco perché ad esempio, quasi tutti i farmaci presentano una scritta con caratteri di colore nero su un ampio sfondo bianco; fu l’azienda svizzera Geigy (oggi scomparsa), a dettare scuola in questo, a partire dagli anni ’60.

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La chiarezza che nasce dalla pulizia del design, in questo caso, è determinante anche ai fini della sicurezza del paziente e dell’operatore, in quanto riduce sensibilmente il rischio di confondersi e di somministrare (od assumere) prodotti con nome o grafica simile, ma diversi.

Quanto anche la stessa industria farmaceutica debba compiere passi in avanti da questo punto di vista, basti ricordare la Raccomandazione n.12/2010 del Ministero della Salute sui farmaci look-alike/sound-alike, mirata proprio a fornire accorgimenti a farmacisti ed infermieri, in particolare, per evitare errori derivanti dal dispensare o somministrare farmaci con aspetto o nome simile.

La mostra regala anche un breve accenno ad un tema ancora estraneo al contesto della sanità italiana, soprattutto quella pubblica: la brandizzazione del servizio sanitario, ovvero la sua trasformazione in marchio.

Nel 2010, ad esempio, la Svezia decise di privatizzare il servizio di farmacie ospedaliere, dapprima gestito dallo Stato, che fu acquistato da alcune private equities (società che gestiscono fondi di investimento, che crearono un marchio denominato Vardapoteket.

Con l’obiettivo di rendere più accattivante l’acquisto di prodotti, non solo farmaceutici, le farmacie vennero completamente riprogettate dallo Stockholm Design Lab, che idearono un layout che richiamava quello di parti del corpo umano, come potete notare in foto.

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Brandizzare un servizio o tutto il sistema sanitario, comunque, non necessariamente coincide con il privatizzarlo. La stessa modalità, ad esempio, può essere funzionale alla realizzazione di prodotti da vendere poi in beneficenza, come pupazzi o bambole destinate a finanziare un ospedale pediatrico.

Proprio il Regno Unito, inoltre, offre il più esemplare modello di sistema sanitario divenuto marchio. “God save NHS”, Dio salvi l’NHS, è un commento spesso presente nei feedback dei pazienti, e testimonia il rilievo assunto nei decenni da un’organizzazione che, a differenza del nostro SSN, ha puntato molto sulla sua identificazione con un logo e con una sigla, presente su tutti i prodotti destinati al cittadino, dai leaflets alle buste dei farmaci, piuttosto che su una impalpabile (concettualmente) idea di network di strutture ospedaliere e servizi territoriali.

In Gran Bretagna, la Sanità non equivale al Ministero, al Governo od alla Regione: è solo ed esclusivamente l’NHS, un totem concettuale che è parte integrante della società britannica e che gli stessi cittadini spesso intendono tutelare, anche contro la stessa politica ed i suoi programmi, tanto da essere stato definito dall’ex Cancelliere dello scacchiere Nigel Lawson, “religione nazionale”.

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Non è un caso che, di recente, su alcuni gruppi Facebook ed associazioni, in Italia, siano state presentate le prime richieste di petizione per creare un logo del SSN, proprio per renderlo un’entità meno astratta e più facilmente identificabile concettualmente dalla popolazione e per segnarne anche il distacco dalla stesso odiata, inefficiente e talvolta corrotta classe politica che ne tira le redini.

Al termine di questo excursus sui temi della mostra, è evidente che il design e la pubblicità hanno contribuito a salvare molte vite, soprattutto nell’ultimo secolo.

Resta però in piedi la domanda se una tecnologia, frutto di studi di design, possa di per sé salvare vite, senza il tramite dell’intervento umano.

La risposta è positiva: osservate, ad esempio, questi pannelli (billboards), molto simili ai moderni totem pubblicitari, posti lungo le strade delle principali strade brasiliane a partire dallo scorso anno, per contrastare l’epidemia del virus Zika, trasmessa da una particolare specie di zanzare, causa di gravi malformazioni fetali.

La luminosità dei billboards, unitamente a piccoli dispositivi in grado di emettere sostanze spray con odore simile a quello del sudore e del respiro umani, attira centinaia di zanzare nel raggio di 2,5 km, e le intrappola sulla superficie viscosa del pannello, lasciandole poi morire per disidratazione.

Il prossimo passo saranno forse robot, progettati dall’uomo, che concepiranno a loro volta altre tecnologie per salvare vite umane, fino ad arrivare al giorno in cui  l’uomo dipenderà dalle tecnologie per salvare se stesso?

 

Rfilessioni ed aggiornamenti post-estivi: come procede la campagna #scrapthecap?

E’ stato anche per me tempo per una sosta, per godere in extremis del sole e del caldo (più tollerabili) di fine estate, almeno per alcuni giorni.

Nel frattempo, lo scorso 6 settembre, l’RCN è riuscita a portare a Westminster Square, la piazza che si affaccia sul Parlamento inglese e che costituisce la sede tradizionale per tutte le principali manifestazioni di protesta, oltre 2000 infermieri, per chiedere lo sblocco al tetto dell’1% dell’aumento degli stipendi degli infermieri inglesi.

La  notizia non l’ho postata né commentata, di per sé non ha suscitato grande clamore e comunque l’avreste potuta leggere su qualunque notiziario specializzato.

Magari notando che, quando si tratta di stipendi e di contrattazione collettiva, sono i sindacati, non i collegi professionali, a doversene occupare.

Inoltre, i numeri portati in piazza sono stati piuttosto esigui e non sono stati di certo i personaggi dello spettacolo di rilievo minore che si sono presentati sul palco a perorare la causa della categoria ad aver dato maggior spessore alla manifestazione.

Il rally, ovvero l’evento di protesta, dello scorso mercoledì rappresenta, tuttavia, solo il primo di una serie di eventi mirati allo #scrapthecap. Domani, infatti, il Parlamento voterà sullo sblocco del tetto; proprio in giornata, mi è pervenuta una mail che mi invitata a scrivere al Parlamentare della mia zona di residenza (individuabile attraverso un motore di ricerca sul sito web dell’RCN) , per spiegargli quanto il tetto ha inciso sulle condizioni di vita quotidiane (è stata calcolata una perdita del potere d’acquisto, per gli infermieri, pari al 14%) e quindi quanto sia necessario rimuoverlo.

Se il Parlamento dovesse lasciare situazione immutata, l’RCN ricorrerà alla soluzione finale: lo sciopero generale, a favore del quale si sono già pronunciati, in un questionario online inviato dal sindacato ai suoi iscritti, oltre 50.000 membri della categoria.

Vediamo cosa accadrà.

Proprio ieri, inoltre, una Camera del Parlamento, quella dei Commons, si è pronunciata su un altro tema decisivo, ma questa volta solo per una percentuale della categoria infermieristica: quella rappresentata dagli infermieri comunitari.

E’ stata infatti votata a maggioranza l’abrogazione dell’European Communities Act del 1972, con cui la Gran Bretagna entrava nell’allora CEE, e si è disposta la conversione delle leggi comunitarie in leggi nazionali, attraverso un processo di transizione nel quale i Ministri decideranno quali norme conservare e quali eliminare, e con quali modifiche.

Ho sempre sostenuto che i professionisti continueranno a trovare sempre le porte aperte in UK (a patto che parlino correttamente l’inglese), non solo per la capacità che ha questo Paese (e Londra) di attrarre “cervelli”, in fuga e non, ma anche per la necessità di colmare lacune organiche importanti, come quelle del sistema sanitario.

Alla, luce, tuttavia, di sempre più frequenti episodi di discriminazione, specie nel mercato del lavoro (sono state di recente portate alla luce offerte riservate a lavoratori in possesso di passaporto inglese, si veda il link sottostante: https://www.theguardian.com/politics/2017/sep/11/no-europeans-need-apply-growing-evidence-discrimination-uk-brexit), sarà forse il caso, per tutti gli immigrati dall’Unione (3 milioni di persone, ricordiamolo!) di iniziare a pensare ad un “piano di emergenza”?

 

 

L’apparenza conta…anche in Inghilterra

Credete che l’Italia sia un Paese retrogrado ed attento più all’immagine che alla sostanza, specialmente sul luogo di lavoro?

Ritenete che invece l’Inghilterra sia una Nazione con una mentalità molto più liberale in tema di immagine, tanto da sdoganare in qualunque contesto capelli colorati, tatuaggi e piercing?

Si tratta di una approssimazione della realtà, pertanto è solo parzialmente vera.

Anche qui, infatti, l’apparenza conta, specie nel momento in cui si svolge una professione a contatto con il pubblico: le restrizioni all’abbigliamento, per esempio, sono numerose.

Senza voler prendere in considerazione gli impiegati della City, il centro finanziario di Londra, che da non molto hanno abbandonato la tradizionale bombetta ma ancora vestono tutti – tutti – completi con giacca e cravatta (se uomini) e tailleur (se donne); senza nemmeno voler considerare avvocati e giudici, che da oltre tre secoli indossano non solo la toga, ma anche la caratteristica parrucca (anche le donne), vi confesso che mi ha molto incuriosito leggere di polemiche, montate negli ultimi tempi, circa l’obbligo, imposto ad alcune commesse o segretarie d’azienda, di indossare gonna e scarpe con i tacchi.

Anche gli infermieri, lo sappiamo, sono vincolati al rispetto di determinate regole, per quanto riguarda l’impiego della divisa e l’utilizzo di monili, anelli e bracciali: molto diffusa, non solo nel mio ospedale, è la regola “bare below the elbow”, letteralmente “nudi sotto al gomito”, ovvero dal gomito alle mani.

Si tratta, è evidente, di disposizioni legate al controllo delle infezioni, mentre altre sono invece inerenti alla sicurezza dell’operatore. Alcune policies, ad esempio, ammettono gli “studs”, gli orecchini con farfallina, ma non quelli ad anello o con pendenti, poiché – mi è stato spiegato – un paziente con demenza e/o in stato di agitazione psico-motoria potrebbe strapparli via.

Per quanto riguarda, invece, tatuaggi, acconciature vistose, piercing (senza anello), invece, il dibattito è particolarmente acceso, nei Paesi anglosassoni come in Italia e nel resto del mondo. Ho espresso sul tema la mia opinione in un post di oltre un anno addietro, a cui vi rimando: https://ilmioregnoperuninfermiere.info/2016/05/

Anche in quella circostanza, mi ero considerato favorevole ai tatuaggi ed ai piercings, purché, appunto, non costituissero veicolo di infezioni e/o non interferissero con la sicurezza del paziente e dell’operatore.

Anch’io, d’altronde, ho indossato orecchini per anni.

Di recente, un episodio ferragostano di una trasmissione televisiva inglese, denominata “Body fixers” (letteralmente: gli “aggiusta-corpi”), ha riaperto la discussione, dopo che Niall, uno studente infermiere dai gusti punk, ha chiesto agli esperti della trasmissione di farsi tagliare l’acconciatura mohicana e di farsi ridurre il foro praticato nel lobo, che nel tempo era diventato così ampio da potervi inserire due evidenziatori.

Scopo del restyling: rendersi “presentabile” ai pazienti ed evitare di spaventarli, come dichiarato dallo stesso giovane. Osservate voi stessi il cambiamento:

punky nurse

punky nurse 2

Ora: non c’è dubbio che il risultato estetico sia gradevole (ci mancherebbe, visto che nella trasmissione intervengono esperti di cosmetica, medicina estetica ed anche un chirurgo plastico, che ha eseguito l’intervento ai lobi di Niall).

Il suo caso, tuttavia, mi fa sorgere alcuni interrogativi.

In una realtà multiculturale come quella di Londra, capita di lavorare fianco a fianco con chirurghi sikh dai tipici turbanti, che non rimuovono mai, come previsto dalla loro religione; medici musulmani con lunghissime barbe; infermiere africane con parrucche (le indossa la grande maggioranza di loro, lo sapevate?) spesso molto vistose e dal gusto estetico su cui non è affar mio discutere, ma che è oggettivamente lontano anni luce dai canoni europei. In tutti questi casi, tali dettagli estetici sono considerati espressione della propria cultura, religione od origine etnica.

Perché, allora, uno studente infermiere dallo stile punk dovrebbe spaventare i pazienti?

Per chi volesse leggere qualcosa in più sulla vicenda di Niall, vi rimando a questo link del quotidiano inglese Daily Mail:

http://www.dailymail.co.uk/femail/article-4799696/Punk-gets-ears-sewn-stretching-35mm.html#v-9056811716148153031