Storia dell’assistenza infermieristica. 2. Florence Nightingale, ovvero guardare alla nascita del nursing moderno per modellare l’infermiere del terzo millennio

Chiunque abbia visitato Londra avrà visitato il ponte di Westminster, scattando un mare di fotografie del Parlamento inglese (la House of Parliament), del Big Ben (la Torre del Parlamento) e dell’abbazia di Westminster. 
La House of Parliament, con il ponte di Westminster, luogo del recente attentato. 
In pochi tuttavia, guardando sull’altra sponda del Tamigi, avranno notato la presenza di un massiccio monoblocco, situato proprio di fronte al Parlamento: si tratta del St. Thomas’ Hospital. 
Un’immagine del St. Thomas’ hospital, visto dal ponte di Westminster.

Il St. Thomas’ Hospital.

Un’altra immagine del St. Thomas’, con la House of Parliament sullo sfondo. 
Molti dei medici ed infermieri che lavorano in questa struttura si sono prodigati per prestare le prime cure ai feriti nel recente attentato terroristico, costato la vita a cinque persone, avvenuto proprio nei paraggi. 
Il St. Thomas’ Hospital, tuttavia, presenta un’importanza speciale per ogni infermiere del mondo, poiché ospita, seminascosto in uno spazio adiacente al parcheggio dell’ospedale, un piccolo museo dedicato alla donna che è considerata la fondatrice del nursing moderno: Florence Nightingale, che proprio presso questo ospedale fondò la prima delle sue celebri scuole, antesignane degli odierni corsi di laurea in infermieristica. 
Il museo, in verità, è piuttosto piccolo e costoso (costa 7 sterline e 50) e, pur riuscendo nell’intento di mostrare l’opera e le memorabilia, ovvero i cimeli, della “signora con la lampada”, non può considerarsi affatto un museo sul nursing, pur volendo proporre qua e là, in alcune immagini, l’evoluzione del ruolo dell’infermiere (anzi dell’infermiera, visto che per molto tempo lo svolgimento di questa professione era riservato alle donne; in Italia, ad esempio, i corsi aprirono agli studenti maschi solo nel 1972) e la sua considerazione presso l’opinione pubblica. 
Un’esperienza un po’ deludente, insomma, specie se rapportata al suo prezzo. 
Eppure oggi sentivo di voler vivere quest’esperienza, volendo trarre qualche spunto di riflessione personale sul mio futuro lavorativo. sul ruolo che vorrei ricoprire nella società e quindi, inevitabilmente, di riflesso, sulla mia personale visione dell’evoluzione dell’intera professione infermieristica nei prossimi anni. 
Ripartire dalle origini è essenziale, perché consente di comprendere da dove si è partiti, dove si è arrivati e quindi consente anche di avere una migliore prospettiva su dove si vuole andare. 
Sono onesto: non ho mai particolarmente amato la figura di Florence Nightingale. 
Descritta anche dai suoi contemporanei come irascibile ed ipercritica, per effetto anche di una patologia (forse una forma cronica di brucellosi) che la rese quasi invalida e la costrinse all’immobilità per lunghi periodi, ella fondava la sua visione della professione dell’infermiere sul concetto di “arte”, che contesto apertamente e che si pone in contrasto con gli stessi metodi scientifici da lei applicati sin dall’esperienza della guerra in Crimea, per fornire evidenze concrete della validità delle sue idee organizzative e degli outcome positivi ottenuti, in termini di riduzione del numero dei decessi nelle fila dei soldati assistiti da lei o dalle volontarie che operarono con lei. 
Critico inoltre (ma vanno considerati i tempi storici) la ragione e l’origine della sua scelta di vita in una “chiamata divina”, che la portò ad immolare la sua stessa esistenza sull’altare del sacrificio e della devozione ai suoi malati, tanto che non si sposò, visse (come le studentesse delle sue scuole) in convitto e vestì con abiti che richiamavano nel colore (nero) e nelle caratteristiche quelli di una suora cattolica. E’ anche per effetto della sua immagine iconica che quella dell’infermiera venne vista a lungo (e viene ancora intesa) come una vocazione e non una professione.  
Alla “signora con la lampada”, come fu soprannominata, tuttavia, va riconosciuto il credito di aver dato finalmente dignità ed onorabilità all’assistenza infermieristica, dapprima appannaggio solo di donne di infimo livello sociale, spesso prostitute ed ubriacone. 
Vediamo come, ricostruendo brevemente la sua esistenza. 
Nata a Firenze (da cui il nome) nel 1820 da una benestante famiglia borghese inglese, in Italia in viaggio di nozze, Florence ebbe sin dall’adolescenza il desiderio di dedicarsi non alla medicina, ma precisamente all’assistenza degli ammalati presso il loro capezzale, incontrando, per i motivi precedentemente citati, l’irritazione e l’opposizione dei genitori, inorriditi dall’idea che la loro figlia si mescolasse con donne di ceto molto inferiore. Gli stessi genitori, tuttavia, dopo alcuni anni, acconsentirono a garantirle una formazione infermieristica in Germania ed a sostenerla nelle sue iniziative con un cospicuo finanziamento mensile.

Florence Nightingale – Courtesy of Wikipedia.

Le vicende storiche che garantirono l’immortalità alla sua figura si intrecciano con quelle della guerra di Crimea del 1853-1856, che coinvolse anche l’esercito di Sua Maestà la regina Vittoria, il quale, inizialmente, soffrì un numero rilevante di perdite nelle sue fila. Il racconto, da parte soprattutto dei giornalisti del quotidiano The Times, dei soldati che morivano in preda alle malattie e ad atroci sofferenze, nel degrado di ospedali da campo in condizioni igieniche fatiscenti, fece montare l’indignazione popolare, che chiese un immediato intervento economico e logistico in soccorso dei feriti di guerra. 
Florence fu invitata a partecipare e riuscì a portare con sé, fino all’ospedale da campo di Scutari in Turchia, un manipolo di 38 volontarie, che si dedicarono per mesi, in qualche caso fino alla morte (11 di loro non fecero mai ritorno, ammalandosi mentre prestavano la loro opera), all’assistenza dei soldati feriti, avvalendosi anche del supporto delle loro mogli.

Florence Nightingale nell’ospedale di Scutari – Courtesy of Wikipedia

Il conto delle perdite, grazie alla riorganizzazione dell’assistenza operata dalla “signora con la lampada”, che si ammalò lei stessa di quella che era chiamata la “febbre di Crimea”, si ridusse drasticamente, grazie ad interventi mirati principalmente a migliorare l’igiene degli ambienti e la dieta dei feriti. La stessa Florence dimostrò, grazie a grafici e statistiche (era stata introdotta alla matematica dal padre), gli straordinari risultati ottenuti, attraverso mesi di incessante lavoro, svolto giorno e notte da lei e dalle sue colleghe.

La lampada turca (faroos, da cui l’italiano faro, N.d.A.), che si pensava venisse utilizzata da Florence per le sue ronde notturne in corsia e che le valse il soprannome di “signora con la lampada”.
Inutile affermare che venne salutata come un’eroina al rientro in patria, oggetto di dipinti stampe ed iconografie, e la sua fama divenne da allora imperitura.

The Lady with the lamp, Henrietta Rae, 1891.

La nostra protagonista, tuttavia, sentì che la sua azione meritava di essere proseguita nel tempo e grazie anche a generose donazioni (che confluirono nel Nightingale Fund) le diede un’eredità fondando scuole che da lei presero il nome (la prima delle quali, appunto, ebbe sede al St. Thomas’ nel 1860), nelle quali l’assistenza infermieristica cominciò finalmente ad essere insegnata sistematicamente e professionalmente, perlopiù a giovani donne della ricca borghesia. 

Le scuole operavano in forma di convitto, per cui le studentesse mangiavano e pernottavano in sede, ed in esse la disciplina era ferrea, a partire dall’obbligo di indossare una determinata uniforme (motivo per cui ancora oggi, in tutto il mondo, gli infermieri vestono una divisa ed i medici no), per proseguire con la devozione alle figure superiori (Sister e Matron), che giudicavano la studentessa (probationer) anche sotto il profilo caratteriale. 
Più o meno l’organizzazione di un convento di suore laiche, in buona sostanza.
Fu davvero innovativa, pertanto, la strategia della “signora con la lampada”? Perdonate l’orgoglio campanilistico, ma chiunque abbia letto la vita e l’opera di San Camillo de Lellis, nonché i suoi scritti (in primo luogo La riforma ospedaliera), sa bene che il Santo Patrono mondiale degli infermieri adottò le stesse metodologie gestionali dell’assistenza tre secoli prima della Nightingale.
Anche nel suo caso, si interveniva sull’igiene degli ambienti e delle suppellettili (biancheria, vestiti), sull’organizzazione razionale degli ambienti e delle stanze di degenza (San Camillo fu il primo a sostenere l’isolamento dei pazienti affetti da malattie contagiose, mentre Florence fu l’inventrice della struttura ospedaliera “a padiglioni”, rimasta in auge fino a pochi decenni addietro – lo sapevate?), sul comfort dei pazienti, cui doveva essere fornito un vitto adeguato e le cui stanze dovevano essere arieggiate e riscaldate.
Niente di nuovo sotto il sole, insomma.     
Per quanto in linea con i suoi tempi nell’approccio organizzativo, Florence fu invece innovativa su un piano che oggi potremmo definire di marketing. 
Le Nightingale Training Schools, infatti, ebbero sin dal principio un approccio globale, aprendosi a probationers provenienti anche da altri Paesi e diffondendosi a macchia d’olio in tutto il mondo, attraverso una numerosa serie di succursali, presenti anche in Italia (a Firenze, Roma, Napoli).

Una rara immagine di Florence Nightingale (al centro, in bianco) con le sue studentesse al St.Thomas Hospital. 

La stessa Florence, inoltre, fu autrice di oltre 200 testi, tra cui il celeberrimo, pluriedito e puritradotto Notes on Nursing, una sorta di manuale dell’assistenza infermieristica.
L’infermità che affliggeva la signora con la lampada, inoltre, creava in lei un atteggiamento di urgenza, che la spinse a scrivere oltre 14.000 lettere, un numero davvero rilevante, a politici ed uomini influenti della sua epoca, per perorare la causa delle infermiere.
La sua opera di propaganda conferì quindi alla figura dell’infermiere quel rispetto e quella considerazione sociale di cui gode ancora nei Paesi anglosassoni, nei quali è riuscita prematuramente a svincolarsi da un controllo, per così dire, paternalistico, da parte della classe medica, nonché delle gerarchie religiose. A differenza di San Camillo, infatti, Florence e le sue studentesse, per quanto religiose e devote, rimanevano pur sempre delle laiche: in questo senso, erano le prime vere infermiere professioniste – e non missionarie – della storia.
Con la Nightingale, inoltre, l’infermieristica diventò disciplina autonoma di studio e ricerca.
A distanza di 150 anni, viene pertanto da chiedersi: l’eredità di Florence è ancora viva?
Quello della signora della lampada è un modello di infermiere superato, di un “angelo del capezzale” pronto a somministrare terapie ed a cambiare medicazioni, ma anche a cucinare pasti e mantenere puliti gli ambienti: una figura materna o domestica adattata all’ambito ospedaliero, che oggi non ha più ragione di esistere.
Quale deve essere, pertanto, il ruolo dell’infermiere del Terzo millennio, un’epoca nella quale indirizzi politici miopi, non solo in Italia ma anche in altri Paesi d’Europa, costringono questa figura a soffrire un grave ritardo nel riconoscimento delle sue lecite aspettative di evoluzione?
Non dimentichiamoci, infatti, che l’introduzione di logiche aziendalistiche ed il perseguimento di obiettivi di “budget” hanno determinato sensibili contrazioni degli investimenti economici nei sistemi sanitari pubblici, con conseguente riduzione degli organici, stagnazione degli stipendi, demotivazione dei professionisti, rallentamento dell’evoluzione, anzi talvolta involuzione delle loro competenze.
Il problema è che un’azienda che trascura l’apporto di chi la conosce meglio di tutti, soprattutto sul piano gestionale, è destinata a fallire.
Gli infermieri, infatti, sono considerati e trattati come semplici “operai”, potendo e dovendo essere invece parte integrante del management ospedaliero. Chi meglio di loro conosce i punti di forza e le criticità del sistema? Chi più di loro può individuare i rischi e le opportunità derivanti dall’intraprendere nuove strategie?
Nessuno più degli infermieri spende il proprio tempo e le proprie energie nelle corsie e nelle stanze di degenza, nessuno più di loro contribuisce al funzionamento di una struttura ospedaliera, se non altro in termini di forza lavoro.
Eppure, mentre nei Paesi anglosassoni l’infermiere presenta una propria struttura dirigenziale, parallela a quella dei medici, in Italia ciò non avviene e per il riconoscimento e l’introduzione di un unico (unico!) dirigente infermieristico occorre spesso intraprendere battaglie amministrative, sindacali, giudiziarie.
Un errore che determina sprechi, inefficienze, aggravi di costi: è di poco tempo addietro la notizia che la Consip, ente preposto alle gare d’acquisto della Pubblica Amministrazione, ha risparmiato 36 milioni di euro sull’acquisto di nuove siringhe, grazie proprio alla consulenza fornita da alcuni infermieri.
Oltre che manager, inoltre, l’infermiere del Terzo millennio è e deve diventare sempre più uno specialista esperto di nuove metodologie dell’assistenza, che possono operare in modo slegato dalla figura medica ed in qualche caso sovrapporsi ad essa, ma non per usurpare le competenze mediche, bensì per collaborare con il medico nell’esecuzione di processi, anche di prescrizione di terapie, standardizzati ed in grado di guidare l’operatore ad una corretta applicazione attraverso l’uso di direttive, protocolli, in buona sostanza algoritmi.
Se i robot possono eseguire compiti complessi sulla base di algoritmi, perché non può farlo anche l’uomo? Ultimo, ma non meno essenziale, l’infermiere oggi si confronta sempre più spesso con le nuove tecnologie informatiche, che stanno integrando, ma non sostituendo, l’assistenza al capezzale del paziente: chi lavora in una terapia intensiva od in una unità di dialisi sa meglio di me di cosa sto parlando.
Da materno angelo del capezzale, laborioso e disciplinato, secondo il modello concepito dalla Nightingale, a manager e professionista specializzato nel Terzo millennio: un’evoluzione e non un salto nel buio a cui tendere con costanza, contrastando ogni sacca di resistenza.
Senza mai perdere di vista, però, l’obiettivo finale: il benessere del paziente.  

Storia dell’assistenza infermieristica. 1.Santa Dinfna e la prima comunità psichiatrica aperta del mondo.

Una premessa è d’obbligo. Non considero l’infermieristica una disciplina od un arte (come sosteneva la Nightingale), bensì una scienza, fondata su sperimentazioni ed evidenze.

Gli infermieri non sono missionari animati dal sacro fuoco della vocazione, bensì professionisti stipendiati (male). 
Ne ho già parlato in un mio post (poi pubblicato su Nurse Times di recente) nel maggio 2016, lo ripeto in questo. 
Appuntate queste considerazioni, la storia ci tramanda straordinari esempi di assistenza ai malati, legati a personaggi che spesso oggi sono considerati Santi, in quanto fino a non tanto tempo addietro l’assistenza ai malati ed ai bisognosi era realmente appannaggio di persone investite di una vocazione religiosa. 
La scienza medica, oltretutto, era ben lontana dal tracciare una linea netta di confine tra chi era realmente affetto da patologie e chi era invece semplicemente bisognoso di quelle che oggi definiremmo cure “sociali”: un pasto caldo, vestiti puliti, un giaciglio in cui riposare al riparo dalle intemperie. 
Malati e barboni venivano accolti tutti insieme nei lazzaretti di manzoniana memoria, dove solo uomini (e donne) di Chiesa si prestavano ad assisterli, supportati da “collaboratori” di infimo rango sociale, come prostitute e vagabondi. 
Toccare il corpo, la pelle, il sangue, le secrezioni biologiche di un altro essere umano era infatti considerato estremamente degradante ed era un compito rifiutato da quasi tutti.
E’ per questa ragione che le vite dei Santi e l’evoluzione della medicina e dell’assistenza infermieristica spesso si incrociano e procedono a braccetto, attraverso affascinanti vicende che talvolta presentano significative ripercussioni nel presente. 
Navigare nel passato, alla riscoperta di queste persone e di questi eventi è un’avventura affascinante, che comincerò oggi, narrando una vicenda praticamente sconosciuta in Italia. 
Quella di santa Dinfna (o Dimpna) è in realtà una leggenda, risalente al VII secolo e tramandata nella tradizione orale e nel folklore locale, fino a confluire in una agiografia redatta tra il 1238 ed il 1247 da un canonico della Chiesa di Sant’Auberto a Cambrai, nell’attuale Belgio, di nome Piero.
Narra il sacerdote che Dinfna era una giovane irlandese figlia di un re pagano, tale Damon, e di una bellissima ed ignota donna cristiana. Dinfna fu battezzata ed istruita all’insegnamento cristiano da un prete di nome Gerebernus, o Gerberno, secondo altre traduzioni.

Alla morte della madre di Dinfna, Damon cercò disperatamente una nuova moglie, senza riuscire tuttavia nel suo intento. Verosimilmente sofferente di disturbi mentali, indubbiamente acuiti dalla scomparsa della moglie, Damon cercò di rimpiazzarla con la figlia, in un incestuoso tentativo di alleviare le sue sofferenze.
Dinfna riuscì tuttavia a fuggire nel continente europeo, aiutata da Gerebernus, sino a sbarcare nel porto belga di Anversa, per muoversi di lì verso la città fiamminga di Geel (o Gheel), sperando di trovare un sicuro nascondiglio nei boschi che la circondavano.
Damon si mise tuttavia a caccia dei due fuggitivi, riuscendo ad individuarli grazie ad una intuizione: si vide infatti rifiutare da un oste belga alcune monete, sostenendo che fossero difficili da cambiare.
Il fatto che un taverniere di villaggio riconoscesse una valuta irlandese fece insospettire il re pagano, che infine trovò Gerebernus e Dinfna presso la Cappella di San Martino a Gheel, dove, travolto dalla sua cieca e folle furia, decapitò dapprima il prete, poi la figlia, che non voleva saperne di piegarsi agli istinti lussuriosi del padre.

Godfried Maes, La decapitazione di Santa Dinfna.

Fin qui la commovente e breve esistenza di una quindicenne trucidata da un genitore impazzito, una vicenda che si può leggere anche nella pagina Wikipedia a lei dedicata e nel Martirologio della Chiesa Cattolica romana, che la commemora il 30 maggio di ogni anno.
In quanto Santa, tuttavia, la storia di Dinfna non finisce qui, mentre inizia quella dei suoi miracoli.
Nel luogo dell’omicidio, infatti, iniziarono col tempo a susseguirsi prodigi, sino all’evento eccezionale della guarigione di tutti i malati mentali nel giorno della traslazione delle sue probabili reliquie all’interno del Santuario che ancora oggi ospita il suo cenotafio (monumento funebre) a Gheel.
Un miracolo che viene per l’appunto ricordato nell’agiografia di Piero di Cambrai e che ha reso da allora Dinfna, o Dimpna, Santa protettrice di tutti i pazienti psichiatrici ed affetti da patologie neurologiche, degli operatori sanitari specializzati (psichiatri, infermieri psichiatrici) e dei luoghi dove questi pazienti vengono curati ed assistiti.
La giovane è stata anche dichiarata patrona delle principesse (quante di loro hanno vissuto esistenze tristi e luttuose!), delle vittime d’incesto e stupro, e viene invocata in caso di perdita dei genitori e per ritrovare la felicità in famiglia.
Con la diffusione della notizia dei prodigi ad essa legati Gheel divenne rapidamente un importante centro di pellegrinaggio, dove i fedeli, affetti da patologie psichiatriche o neurologiche, come l’epilessia (allora, ahimé, si buttava tutto nel grande calderone della “pazzia”), strisciavano o camminavano in ginocchio per nove volte sulla tomba contenente le probabili reliquie della Santa. Altre fonti riportano che ai pazienti si appendeva al collo una sorta di collana, con un mattone riportante l’iscrizione di era preromanica “MA DIPNA”.
Tutti questi rituali venivano ovviamente compiuti nella speranza di ottenere la grazia e la guarigione dalla propria patologia, ma le aspettative nei confronti di un miracolo della Santa resero in breve l’afflusso dei pellegrini nella piccola cittadina di Gheel insostenibile; nonostante l’edificazione, già nel 1286, di una casa di accoglienza, trasformatasi poi in un vero e proprio istituto psichiatrico, la città divenne in breve ricettacolo di migliaia di pazienti, che finivano col trascorrere le loro giornate di pellegrinaggio nelle strade, con tutte le problematiche di igiene e di ordine pubblico che ne potevano conseguire.
Le autorità di Gheel adottarono allora una decisione rivoluzionaria: chiesero ed ottennero dagli abitanti di concedere ospitalità ed assistenza ai pellegrini. Ciò rese la cittadina fiamminga la prima grande comunità terapeutica psichiatrica aperta al mondo, in un’epoca che non conosceva ancora neppure i manicomi.

Un’immagine della cittadina di Gheel. 

La sperimentazione fu efficace, tanto che ancora oggi Gheel è il più grande esempio di casa famiglia, anzi di città famiglia, al mondo: secondo quanto riportato dalla pagina Wikipedia, si calcola che attualmente circa un migliaio di pazienti psichiatrici, su 35.000 residenti, prendano parte attivamente alla vita sociale del Paese, lavorando e svolgendo iniziative di volontariato, per andare poi a dormire (perlomeno, la maggior parte di loro) nell’istituto psichiatrico sorto accanto alla Cappella, poi divenuta nel 1749 Santuario, di Santa Dinfna.

Il santuario di Santa Dinfna nella cittadina fiamminga. 

Una giovane che, con la sua triste vicenda, ha tuttavia costituito, nei secoli, uno straordinario modello di riferimento per proteggere, assistere ed in definitiva rendere meno infelice l’esistenza di tante altre persone ancora oggi troppe volte emarginate e costrette perciò a vivere ancora più sofferenze di quelle legate alla propria patologia.
Proprio nel 2016, Santa Dinfna è tornata all’attenzione delle cronache inglesi, per una singolare iniziativa dei vescovi locali: il Blue Monday, il lunedì della terza settimana di Gennaio, è considerato dagli studiosi il giorno più triste dell’anno. I clerici hanno pertanto lanciato una serie di iniziative di preghiera e volontariato per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della depressione, dedicandola proprio alla giovane irlandese.
Per chi volesse saperne ancora di più, invito alla lettura di questo interessante blog: https://unapennaspuntata.com/2011/05/30/santa-dinfna/