Errare humanum est. La segnalazione degli eventi avversi o incident reporting in Italia ed in Inghilterra: perché le statistiche in Sanità contano.

Ricordo come se fosse oggi, quando sostenni il colloquio che mi portò poi ad essere assunto presso l’ospedale per il quale attualmente lavoro, che risposi correttamente, seppure in un inglese ancora farraginoso, a tutte le domande che le dirigenti infermieristiche mi posero, ma nelle mie risposte mancava sempre un elemento. Ogni volta, sapevo indicare come agire, ad esempio in caso di caduta di un paziente in reparto o di abuso di un operatore su un paziente (o viceversa), ma venivo sempre invitato ad aggiungere qualcosa che…mi sfuggiva.

Questo qualcosa era la segnalazione dell’evento avverso, l’incident reporting.

Riportare gli incidenti od i “quasi-incidenti” (near misses) ha un valore straordinario per la tutela degli operatori e dei pazienti, ma in generale per la crescita dell’intero sistema: insabbiare o trascurare servirebbe soltanto a persistere negli stessi errori, mentre una cultura che invita a riflettere sugli sbagli e anche sugli incidenti non attribuibili a colpe specifiche, condividendo le informazioni così ottenute, non può che essere vincente e favorire una crescita ed un miglioramento continui. 
Si chiama gestione del rischio clinico. Assistere e curare gli ammalati, dentro e fuori le strutture ospedaliere, comporta molti rischi. Si può perfino uccidere mentre si cerca di salvare la vita. 
Accade e continuerà ad accadere: è umano. 
Ma non è necessariamente “malasanità”; l’incidenza dell’errore può essere ridotta, ma mai essere pari allo zero. 
L’importanza della segnalazione degli eventi avversi è conosciuta molto bene in Inghilterra e anche il nostro Ministero della Salute, attraverso il SSN, da anni ha implementato un sistema di monitoraggio degli eventi sentinella, ovvero di quelle situazioni che presentano un particolare profilo di gravità. 
Riporto direttamente l’elenco di questi eventi, altrimenti denominati “never ever” (che non dovrebbero mai verificarsi, cioè), direttamente dal sito web del Ministero della Salute: 
  • Morte o grave danno per caduta di paziente;
  • Suicidio o tentato suicidio di paziente in ospedale; 
  • Ogni altro evento avverso che causa morte o grave danno al paziente; 
  • Atti di violenza a danno di operatore;
  • Strumento o altro materiale lasciato all’interno del sito chirurgico che richieda un successivo intervento od ulteriori procedure;
  • Morte o grave danno imprevisto conseguente ad intervento chirurgico;
  • Morte o disabilità permanente in neonato sano di peso > 2500 grammi non correlata a malattia congenita; 
  • Morte, coma o gravi alterazioni funzionali derivati da errori in terapia farmacologica; 
  • Reazione trasfusionale conseguente ad incompatibilità AB0; 
  • Morte materna o malattia grave correlata al travaglio e/o parto;
  • Errata procedura su paziente corretto;
  • Morte o grave danno conseguente ad inadeguata attribuzione del codice triage nella Centrale Operativa del 118 e/o all’interno del Pronto Soccorso;
  • Procedura chirurgica in parte del corpo sbagliata (lato, organo o parte);
  • Procedura in paziente sbagliato;
  • Morte o grave danno conseguente ad un malfunzionamento del sistema di trasporto (intraospedaliero od extraospedaliero);
  • Violenza su paziente in ospedale.

Come si può vedere, si tratta di un’ampia casistica, che tuttavia, conti alla mano, si riduce a 1.928 casi che coprono un arco temporale di ben 7 anni, dal  2005 al 2012, secondo il 5° Rapporto di monitoraggio degli eventi sentinella, pubblicato dal Ministero nel 2015 e disponibile, anche per il download, a questo link:  http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2353_allegato.pdf.

Ora, come affermava un famoso conduttore televisivo degli anni Ottanta e Novanta, la domanda nasce spontanea: una media di 275 casi di “never ever” sono pochi o sono tanti? E tutti i casi di malasanità che leggiamo sui giornali? Sono anch’essi inclusi in questa cifra? Dove avvengono maggiormente gli eventi sentinella? Al Nord od al Sud? In quale ospedale si verificano di più? In quale di meno? In quale Unità Operativa?
Tutte domande alle quali, purtroppo, lo striminzito rapporto ministeriale non fornisce risposta.
La differenza tra il SSN italiano e l’NHS, infatti, ancora una volta sta nell’accuratezza e nella meticolosità delle statistiche. Il rapporto inglese, in primo luogo, è semestrale, mentre quello italiano è stato aggiornato per l’ultima volta nel 2015 e non è neppure riferito a questa ultima annata, ricomprendendo cumulativamente gli anni dal 2005 al 2012 (sulla base delle segnalazioni inserite nel sistema SIMES).
L’NHS, invece, prevede, come in Italia, un sistema centralizzato di segnalazione degli eventi (per l’Inghilterra ed il Galles), denominato National Reporting and Learning System (NRLS), ma che è differenziato per Trust (che può ricomprendere uno o più ospedali) e la cui casistica è esaminabile nella sua globalità o in relazione a singole strutture ospedaliere. 
In altre parole, l’operatore sanitario (infermiere, medico, tecnico), che riporta l’evento lo inserisce in un database nazionale, nel quale però le segnalazioni, pur anonime, sono tracciabili in rapporto alla struttura. 
Quello che stupisce, però, è che le statistiche italiane riguardano gli eventi sentinella, ma non comprendono tutta la restante casistica: solo così si spiega l’abisso di segnalazioni tra i due Paesi, peraltro evidente anche se si prendono in considerazione studi italiani in materia, come il dossier sul sistema di incident reporting regionale e locale della Regione Emilia-Romagna negli anni 2012-2013, che riporta oltre 22.000 segnalazioni (cfr. Rodella S,, Mall S,, Porcu E., “Qualcosa non ha funzionato: possiamo imparare? Il sistema dell’incident reporting in Emilia-Romagna. 2012-2013”. Dossier n. 250 – Agenzia sanitaria e sociale regionale, Regione Emilia-Romagna, 2015). 
In UK il solo Moorfields, che costituisce un piccolo Trust, in un solo anno ha denunciato eventi pari a tutti gli eventi sentinella presi in considerazione dal Ministero dall’introduzione del sistema di monitoraggio, mentre un Trust maggiore, come il Barts di Londra, ne ha totalizzati ben 11.000. 
Una manna per gli statistici e gli esperti di gestione del rischio, ma anche per gli stessi manager delle strutture ospedaliere, che sono peraltro obbligati ad investigare su ogni singolo evento riportato ed a fornire una relazione scritta.  
Ciò spiega la complessità della documentazione reperibile e scaricabile liberamente dalla fonte ufficiale inglese, linkata qui di seguito: https://report.nrls.nhs.uk/explorerTool/default.aspx
Chi ha tempo e pazienza potrebbe trascorrerci ore.
Ma non finisce qui: i “serious incidents”, che potremmo paragonare, anche se non esiste piena equivalenza, agli eventi sentinella italiani, sono gestiti attraverso il “Serious incident framework”.
I suoi scopi e caratteristiche possono essere approfonditi scaricando liberamente il documento presente al seguente link: https://www.england.nhs.uk/patientsafety/wp-content/uploads/sites/32/2015/04/serious-incidnt-framwrk-upd2.pdf.
Quale è il senso di una analisi così dettagliata degli eventi avversi, come quella inglese?
In buona sostanza, imparare dai propri errori. 
I website NHS lo riportano più volte ed in chiaro.
Far “cantare le carte”, documentare con le cifre quanto si è fatto e si sta facendo, quanto si sta imparando e migliorando è, in primo luogo, un atto dovuto nei confronti della popolazione: i cittadini inglesi, come quelli italiani, sostengono con le imposte un sistema sanitario gratuito, i cui risultati devono essere trasparenti e disponibili per tutti. 
E’ ovvio, inoltre, che si tratta di buona ed efficace comunicazione pubblica. 
La stampa aggressiva che scalpita per riportare a caratteri cubitali un nuovo episodio di malasanità esiste anche in UK, come in Italia. Ma solo dimostrando con i numeri, i rapporti e i documenti messi a disposizione di tutti si possono combattere l’ignoranza, la cattiva informazione e le campagne di denigrazione che non possono altro che risultare in lunghe controversie giudiziarie, mancanza di fiducia dei pazienti e degli operatori, in un crescendo deleterio per l’intero sistema e, in ultimo, per le stesse persone che, nella maggior parte dei casi, subiscono gli eventi avversi: i pazienti. 
Post scriptum: nella categoria degli eventi sentinella, come si è visto, sono presenti anche le violenze a danno degli operatori. Un fenomeno, come sappiamo, in costante aumento in molti Paesi, soprattutto nei confronti degli operatori del Pronto Soccorso o sulle ambulanze. 
Da tempo in UK, dove si registrano ben 193 episodi di aggressioni al giorno, è stata lanciata una petizione, ad opera un conduttore televisivo, Nick Ferrari (evidente l’origine italiana del cognome), che attualmente è in discussione in Parlamento.
Trovate la pagina ed alcuni video particolarmente forti al seguente link: http://www.lbc.co.uk/radio/presenters/nick-ferrari/stop-violence-on-nhs-staff-nick-ferraris-petition/

La proposta prevede l’introduzione del reato specifico di aggressione al personale NHS in servizio, con condanne fino ai sei mesi di reclusione, esattamente come nei confronti dei poliziotti. 
In Italia il Codice penale contempla il reato di violenza o minaccia ad un incaricato di pubblico servizio all’art. 336, stabilendo una condanna alla reclusione variabile da sei mesi a cinque anni.
Le leggi, quindi, esistono già, basta applicarle. Servono quindi posti di polizia o di guardie giurate fissi in ogni Pronto Soccorso e sanzioni certe e severe contro chi non apprezza, né rispetta, l’opera di chi ogni giorno va al lavoro per assistere ammalati e salvare vite umane.  

Decido io cosa fare del mio corpo: un interessante caso di cronaca inglese

Viviamo in un’epoca di dilemmi etici.
Un’epoca nella quale vecchio e nuovo si fronteggiano, in cui nuove concezioni etiche e radicati dogmi, ostaggio di una teologia che fatica ad adattarsi ai tempi moderni, si scontrano in una lotta che è ben lontana dal trovare un armistizio. 
L’Italia è e resterà per tanto tempo ancora un Paese cattolico, spesso ostaggio di un’ingerenza pesante delle gerarchie religiose su problematiche laiche, ma i dilemmi sul fine vita, sul diritto a scegliere come decidere di vivere e di morire, come decidere di curarsi o non curarsi e cosa fare del proprio corpo sono vivi oggi più che mai, sebbene anche avvelenati, presso l’opinione pubblica, da estremismi figli di una profonda ignoranza. 
Diritto alla “dolce morte”, ovvero all’eutanasia od al suicidio assistito (si veda il recentissimo caso del Dj Fabo), diritto all’aborto (si veda il recentissimo caso della decisione del San Camillo di Roma di assumere solo ginecologi non obiettori, da impiegare nel servizio di interruzione di gravidanza), diritto a scegliere di non essere vaccinati (anche questo è un diritto, ma ne riparleremo più avanti), sono temi che fanno discutere la Nazione e finiscono sui titoli dei giornali ed in Parlamento. 
Dove vengono messi in un cassetto e volutamente dimenticati, ma questa è un’altra storia. 
Proprio in questi giorni arriva dall’Inghilterra un caso che invita a far riflettere proprio sulla necessità non solo di trovare, ma talvolta anche di applicare correttamente le regole che definiscono la libertà degli individui di decidere cosa fare del proprio corpo e della propria salute. 
I fatti in breve.
Una giovane donna si rivolge ad un noto medico londinese. E’ insoddisfatta da anni dell’aspetto dei propri genitali. Sì, avete capito bene. Ha già subito un intervento, ma vuole una nuova labioplastica vaginale. L’intervento comporta anche la mutilazione del clitoride. Il medico, che è anche professore universitario, asseconda la paziente. Un altro chirurgo esegue l’intervento. Tutto bene. 
Il caso viene pubblicato da due medici (entrambi uomini) nel 2011 su una rivista specialistica. 
A questo punto scoppia il finimondo. 
Un altro chirurgo (donna) legge l’articolo e non la prende bene. 
Denuncia i due medici per aver violato la legge inglese sulle mutilazioni genitali femminili, legge introdotta per rendere illecita, anche in ambiente ospedaliero, una pratica tradizionale ancora oggi estremamente diffusa specie nell’Africa subsahariana, che viene praticata su milioni di bambine, generando enormi sofferenze, traumi, infezioni, morti.
La legge prevede che la mutilazione dei genitali sia ammissibile solo in casi in cui l’intervento sia motivato da ragioni di salute o psicologiche.  
Seguono tre anni di indagini sulla vicenda. 
E’ interessante l’accenno al genere dei soggetti coinvolti, perché sembra quasi che sia stata condotta una battaglia di solidarietà femminile contro due macellai colpevoli di avere circuito un’incapace. 
E invece no. La paziente era una donna istruita, nel pieno delle sue facoltà mentali, che viveva da anni un forte disagio psicologico legato all’aspetto delle sue parti intime e che aveva firmato un consenso pienamente informato. 
Il magistrato incaricato dell’inchiesta decide infatti, alla fine, di archiviarla. 
Il chirurgo donna che aveva lanciato l’accusa non la prende bene. Di nuovo. 
L’accusato risponde sostenendo invece che la denuncia era ridicola e che la mutilazione genitale femminile è una pratica condotta contro la volontà dei soggetti. In questo caso, invece, era stata la stessa paziente a scegliere liberamente. Una terapia psicologica magari avrebbe aiutato, ma chi lo può dire? Ora questa giovane donna, insoddisfatta dell’aspetto della propria vulva, probabilmente vive una vita sociale e sessuale più serena.

Per chi volesse saperne di più, qui di seguito il link all’articolo (in inglese, ovviamente): http://www.standard.co.uk/news/health/doctor-cleared-over-fgm-says-women-should-be-free-to-have-intimate-surgery-a3477941.html
Al di là dei risvolti pruriginosi della vicenda, il caso è emblematico.
La legge, sia italiana che inglese, già prevede la libertà di scelta in molti casi. Si può scegliere di non vaccinarsi, anche contrastando decenni di evidenze scientifiche, Si può perfino decidere per i propri figli. E su questo punto non sono d’accordo, perché se vuoi giocare col fuoco, negando decenni di evidenze scientifiche, non vedo perché sulla brace ci debba camminare anche tuo figlio. 
Mi ricordo che quando svolgevo tirocinio in Rianimazione capitavano spesso pazienti che esprimevano il rifiuto alla tracheostomia. 
Si possono eseguire mille tipologie di interventi estetici, anche deturpanti. 
Eppure di fronte a certi argomenti noi tutti, come cittadini, pazienti od operatori sanitari, troviamo dei muri. Muri di pregiudizi, piuttosto che di complessità delle tematiche. 
Gli Italiani non sono ancora maturi per un confronto ed una soluzione di certi argomenti, ci si accapiglia ancora fra fascisti e comunisti quando si discute di politica, figuriamoci se non ci si divide tra pii cattolici e seguaci del demonio quando si discute di eutanasia od aborto, diritto alla sospensione delle cure, interruzione dell’accanimento terapeutico, testamento biologico o come diavolo altro si voglia definire questa problematica.
Eppure basterebbe seguire un filo rosso, che accomuna tutti: la libertà dell’individuo di scegliere. 
Sono già tutti d’accordo su questo, laici e cattolici: non sono forse gli scopi dell’agire umano, nella religione cristiana, fondati sul libero arbitrio? Eppure lo si dimentica spesso, quasi sempre.
Sono piuttosto lieto, in quanto operatore sanitario, impegnato nel’assistenza alla persona, che il nuovo Codice deontologico, al momento in discussione (a proposito, potete commentarlo liberamente andando sul sito Ipasvi, vi invito a farlo), lasci ampia libertà di azione all’infermiere, che può uniformare la propria condotta ai suoi principi etici ed a quelli dell’assistito, come si evince dalla bozza del nuovo articolo 6: “L’infermiere si impegna a sostenere la relazione assistenziale anche qualora la persona manifesti concezioni etiche diverse dalle proprie. Laddove la persona assistita esprimesse e persistesse in una richiesta di attività in contrasto con i principi e i valori dell’ infermiere e/o con le norme deontologiche della professione, si avvale della clausola di coscienza rendendosi garante della continuità assistenziale“. 
Un bel passo in avanti rispetto al vecchio Codice, che invece vincolava l’infermiere a farsi “garante delle prestazioni necessarie per l’incolumità e la vita dell’assistito” (art 8), costringendolo quindi ad insistere anche nell’accanimento terapeutico.
Mentre il dibattito e la presa di coscienza dell’opinione pubblica proseguono, mando un grande abbraccio a tutti quelli che vivono una vita di sofferenza quotidiana per sé ed i propri cari e non sono ancora liberi di scegliere.