Per chi non conoscesse l’inglese, la notizia, diffusa dal giornale inglese The Telegraph, risale al 25 gennaio: secondo le statistiche ufficiali, il numero degli infermieri europei che hanno presentato domanda di iscrizione presso l’NMC è crollato del 90% in un anno. Su questa percentuale non ha inciso il Brexit, come riportato dal quotidiano, quanto piuttosto la previsione dell’obbligatorietà, da gennaio 2016, del test IELTS per chiunque presenti una nuova domanda di iscrizione nel registro. Il test è selettivo ed ha scoraggiato molti infermieri italiani, spagnoli e portoghesi dal presentare domanda. Ma sul crollo delle richieste incidono sicuramente altri fattori, poiché bisogna considerare anche il numero di professionisti che hanno abbandonato l’UK dopo un periodo di permanenza nel Paese. L’Inghilterra non è più così attrattiva?
Certo è che l’NHS ha terribilmente bisogno di coprire le sue lacune organiche, che si prevede arriveranno a 36.000 nel 2020, servendosi anche e sopratutto degli infermieri europei: ne va della stessa sopravvivenza del sistema sanitario. Vedranno come risponderanno le massime istituzioni del Regno.
Nel frattempo, per chi fosse interessato ad espatriare, vi informo che un ricercatore della MIlano-Bicocca, Iraklis Dimitriadis (è greco, ma parla perfettamente italiano), sta conducendo una ricerca nell’ambito di un progetto europeo, svolgendo una serie di interviste per comprendere le motivazioni che spingono o spingeranno i professionisti italiani (compresi gli infermieri) ad abbandonare l’Italia per altri lidi.
Ho avuto modo di farmi una piacevole chiacchierata con questo studioso a Londra e quindi mi offro di fare da passaparola per aiutarlo nel progetto.
Per chi volesse scambiare quattro parole con lui (il colloquio dura un’oretta), vi posso fornire la sua e-mail personale.
Qui di seguito trovate il link all’articolo del Telegraph: http://www.telegraph.co.uk/science/2017/01/25/number-eu-nurses-coming-uk-falls-90-per-cent-since-brexit-vote/
Mese: gennaio 2017
Quando l’assistenza ospedaliera diventa campo di battaglia: cosa sta succedendo nei Pronto Soccorso in Italia ed in Inghilterra?
Drammaticamente lunga è diventata anche la permanenza in Pronto Soccorso, in attesa di un letto disponibile, di pazienti di cui è stata già decisa l’ammissione in reparto, ma qui, a differenza che in Italia, il blocco è individuabile a valle nel processo di cura: in Inghilterra non si può dimettere a meno che il discharge sia “safe”, ovvero che sia garantita l’assistenza sanitaria del paziente anche a domicilio. Difficile, però, attuare un piano di dimissione protetta per molti anziani che vivono soli.
Di qui la necessità di rivolgersi ai servizi sociali (anch’essi sotto pressione come mai prima d’ora, a causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del mutare della composizione delle famiglie) per mettere in atto un adeguato “package of care”, ovvero un pacchetto di cura, che tuttavia può richiedere anche parecchie settimane, specie per i pazienti con patologie neurodegenerative come l’Alzheimer od il Parkinson.
Ne consegue, tornando a monte del nostro famoso processo di cura, che non è raro sentire racconti di nonnini debilitati lasciati sulle barelle delle ambulanze anche per giorni, per giunta bloccando anche i mezzi, sprovvisti della barella medesima.
Un po’ quello che si è verificato, nelle settimane scorse, al San Camillo di Roma, dove ben 40 ambulanze erano rimaste sprovviste di barelle, impiegate proprio per “ospitare” pazienti in Pronto Soccorso. In Italia, tuttavia, va ricordato il “blocco delle barelle” è il risultato non di un rallentamento delle dimissioni, ma di un taglio indiscriminato dei posti letto perpetrato sull’intero territorio nazionale in anni di manovre politiche mirate a razionalizzare il sistema sanitario puntando solo sul contenimento dei costi generato da una riduzione dei servizi.
Provate a ridurre i consumi di un camion mettendo meno gasolio nel serbatoio. Ad un certo punto il camion si fermerà. Ecco, ora avete un’idea della lungimiranza delle recenti politiche di gestione del Sistema Sanitario Nazionale.
– l’apertura di associazioni di medici di famiglia in strutture pubbliche aperte dalle 8 alle 20 su tutto il territorio nazionale, nelle quali operi in maniera strutturata anche l’infermiere di comunità, come da tempo avviene anche in Inghilterra (anche questo punto, come il primo, oggetto di grandi controversie e discussioni tra medici, infermieri e rappresentanti politici);
A tal proposito ho già raccontato, in un mio precedente post, il caso dell’Ospedale di Romford nel Regno Unito ed ai sorprendenti risultati ottenuti dalla sperimentazione di questo sistema di “pre-triage”, in termini di riduzione dei tempi di attesa dei pazienti, tanto che se ne sta già studiando l’estensione a tutti gli A&E di Londra;
La sua petizione ha raccolto finora oltre 37.000 firme, per cui verrà con buona probabilità discussa in Parlamento.
Parliamo, insomma, di persone perfettamente capaci di intendere e di volere.
Ne risulterà una società divisa a metà, tra chi pagherà servizi privati per conservare il privilegio (non più diritto) ad una assistenza sanitaria di alta qualità e chi invece cercherà nella buona sorte la speranza di conservare a lungo una buona salute, non avendo mezzi economici per accedere alle cure che oggi vengono fornite gratuitamente a tutti (ricordiamolo) dall’NHS in Inghilterra e dal SSN in Italia.
Nel Regno Unito, tuttavia, la classe politica, seppur spaccata, da tempo discute e tenta di individuare soluzioni per allontanare il più possibile lo spettro della privatizzazione della sanità, iniettando nuove risorse finanziarie nel sistema; vi sembra invece, cari lettori, che in Italia i nostri Governanti mostrino, ad oggi, la stessa consapevolezza e sensibilità verso questo problema?
A voi il giudizio.