Può un Pronto Soccorso rifiutare di assistere pazienti? Il caso del Queen’s Hospital di Romford: un nuovo modello di gestione del triage?

Può un Pronto Soccorso rifiutare di assistere pazienti?
Di primo acchito si sarebbe portati a rispondere negativamente.
I tagli ai sistemi sanitari di molti Paesi, Italia ed UK inclusi, la pressione esercitata sugli operatori sanitari e sui Pronto Soccorso da riduzioni del personale e da un massiccio aumento nell’affluenza, hanno indotto in qualche caso ad adottare soluzioni così disperate e radicali da portare risultati del tutto insperati e stravolgere i moderni modelli organizzativi dell’assistenza, diventando un modello per molti altri.
Voglio raccontarvi una storia recente che arriva proprio dall’Inghilterra e che mi ha molto impressionato.
Il Queen’s Hospital di Romford è un’ospedale della periferia nord-est di Londra, che comprende anche un Dipartimento di Pronto Soccorso (in inglese A&E, Accident ed Emergency Department) particolarmente affollato.

Afferiscono ad esso circa 500 pazienti al giorno, poco meno di 200.000 l’anno, l’equivalente del Pronto Soccorso di una città medio – piccola. Come la mia Pescara, per intenderci.
L’A&E di questo ospedale era da sempre in sofferenza: nel 2013 era finito persino finito nell’occhio del ciclone dei tabloid inglesi per le infinite attese dei pazienti, che in qualche caso si protraevano fino ad 11 ore. 
Ben lontano dal limite di 4 ore previsto in Inghilterra come standard per effettuare il triage, visitare, trattare e infine dimettere almeno il 95% dei pazienti di un Pronto Soccorso.
La severa CQC (Care Quality Commission), l’organismo governativo che ispeziona periodicamente gli standard assistenziali di ogni struttura sanitaria del Regno Unito, aveva stabilito che nel Pronto Soccorso di Romford i pazienti ricevevano una assistenza “inaccettabilmente scarsa” (unacceptably poor care). 
Le previsioni per il Pronto Soccorso del Queen’s Hospital erano tutt’altro che rosee: pazienti e attese erano infatti destinati ad aumentare.
Urgeva adottare delle soluzioni drastiche per cambiare rotta.
Come sempre, nel rispetto di limiti di budget che non consentivano di investire grandi risorse per l’assunzione di nuovo personale o per rinnovare le infrastrutture.
Un vicolo cieco, insomma.
Cosa fare? Il see and treat, ovvero la gestione infermieristica delle emergenze “minori”, in Inghilterra costituisce una realtà pluridecennale – a differenza dell’Italia, dove è stato di recente necessario il ricorso al giudice amministrativo, nel Lazio, per superare arcaiche resistenze e renitenze dell’Ordine dei medici.
Questa soluzione, pertanto, era già stata praticata.
La disperazione ha allora fatto aguzzare l’ingegno, facendo introdurre, prima in via sperimentale la scorsa estate ed ora in maniera definitiva, un nuovo modello di gestione degli accessi di Pronto Soccorso che…assomiglia un po’ all’uovo di Colombo.
Quanti pazienti che si rivolgono ad un Pronto Soccorso non ne hanno, di fatto, bisogno?
Quanti pazienti potrebbero rivolgersi al medico di famiglia o prenotare un appuntamento con uno specialista, o addirittura non avrebbero bisogno affatto di un medico?
Quanti pazienti abusano del sistema sanitario e vanno in Pronto Soccorso per non aspettare ?
Quanti pazienti potrebbero essere respinti?
Si tratta di domande comuni a tutte le Nazioni che offrono un’assistenza sanitaria gratuita ai cittadini, come l’Italia ed il Regno Unito, e che spesso costituiscono oggetto di un acceso e preoccupato dibattito politico sul futuro del sistema sanitario stesso.
Nessuno, tuttavia, aveva finora pianificato una sistematica “selezione all’ingresso” dei cittadini “meritevoli”, in virtù del loro problema di salute, di accedere ad un Pronto Soccorso, rimandando invece tutti gli altri dal medico di famiglia (in Inghilterra GP, General Practitioner) od a casa.
E’ esattamente la soluzione che è stata invece adottata a Romford, tra la sorpresa e la perplessità di molti.
Il trial, ovvero la sperimentazione, non coinvolgeva i bambini e prevedeva un medico od un GP (ma potrà essere benissimo, in futuro, un triagista esperto) allocati letteralmente “alla porta” dell’A&E, dunque prima ancora dello sportello del triage, con il compito di redirigere i pazienti che non necessitavano affatto di cure urgenti.
Un po’ come i buttafuori all’ingresso di una discoteca, se mi si passa il paragone.

Incredibilmente, il sistema ha funzionato. Tanto da essere adottato in via permanente e tanto che il Sindaco di Londra, Sadiq Khan, ne ha auspicato un paio di giorni orsono la pronta adozione in tutti i congestionati Pronto Soccorso della capitale.
Sono stati “respinti”, in realtà solo indirizzati verso il corretto percorso di cura, pazienti con emorroidi, con una puntura di vespa, oppure affetti da candidosi.
I tempi di attesa si sono ridotti di 21 minuti in media per gli adulti e di 48 minuti per i bambini ed i pazienti trattati e dimessi entro 4 ore sono passati dall’84 all’86%.
Il personale medico ed infermieristico ha finalmente potuto concentrare le propria attenzione e professionalità ai casi più complessi, con soddisfazione di tutti e riduzione dei conflitti interni e con i pazienti.
Guardando alla realtà italiana, afflitta dagli stessi annosi problemi di quella inglese, sorge spontaneo il paragone e l’auspicio della pronta introduzione di un modello simile.
L’unica variazione necessaria, a mio parere, sarebbe la presenza costante di un agente di sicurezza (guardia giurata o poliziotto) insieme al medico “pre-triagista”.

Perché l’assistenza sanitaria urgente e gratuita in Gran Bretagna è un diritto, in Italia – purtroppo – è diventata una pretesa.    
  

Quando il cliente si inca**a: come (non) va gestito il rapporto con il cliente.

Tutti noi, quando svolgiamo un lavoro, ci relazioniamo con clienti, utenti, pazienti.
Tutti noi, quando non lavoriamo, siamo clienti, utenti, pazienti.
Diventa perciò molto interessante osservare come viene gestito da altri il rapporto con il cliente, quando il cliente siamo noi.
In genere, vale la sempreverde massima; “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”.
In molti casi capita di rimanere positivamente impressionati dal trattamento ricevuto, ma le disavventure – purtroppo – sono all’ordine del giorno.
Al rientro in Inghilterra dopo qualche giorno di meritate ferie, ho deciso, per guadagnare mezza giornata in più da trascorrere con i miei affetti, di volare da Roma Fiumicino anziché da Pescara.
Umore nero come al solito; per ovvie ragioni, lasciare la mia città, il mio Paese ed i miei cari non mi rende allegro, ma fino all’arrivo in aeroporto tutto è filato liscio come l’olio e con estrema tranquillità mi sono avviato al gate per l’imbarco.
Da questo momento in poi è iniziato un calvario caratterizzato da continue attese, che mi hanno portato ad accumulare oltre tre ore di ritardo rispetto al previsto e ad arrivare a casa a Londra, distrutto, solo alle 4 del mattino seguente.
Mi è già capitato di subire ritardi, per ragioni meteorologiche o tecniche: pazienza, preferisco arrivare sicuro piuttosto che puntuale a tutti i costi. 
Ciò che mi ha incuriosito ed irritato al tempo stesso è stato osservare la pessima gestione del cliente (il famoso customer service) da parte dell’equipaggio della compagnia aerea, sia a terra in aeroporto che a bordo (compresi primo pilota e copilota). 
Non ricordo, infatti, di essere mai stato informato né sul ritardo, né sulle ragioni del ritardo medesimo. Anzi, ho ricevuto informazioni spesso non veritiere e discordanti: “è il vento forte”, “no, è colpa dell’equipaggio incaricato delle operazioni di imbarco e sbarco passeggeri”, in un rincorrendo in notizie che ricordavano il 20-0 contro l’Inghilterra nella partita di calcio di fantozziana memoria. Ho atteso a lungo facendo leva sulle mie energie residue e sulla mia riserva di pazienza, ma l’indifferenza del team che avrebbe invece dovuto provvedere al comfort del mio viaggio e la sensazione di essere trattato come un sacco di patate (pagante, è bene ricordarlo) ha messo a dura prova anche i miei nervi.
C’è chi ha raggiunto il boiling point, il punto di ebollizione come si dice qui in Inghilterra, molto presto e, infuriato dalla lunga attesa, si è slacciato le cinture, andando a protestare rumorosamente con gli steward di bordo dinanzi alla cabina del comandante, con conseguente aumento della tensione e dello stress in tutti: equipaggio e passeggeri.   
Scene cui non si vorrebbe mai assistere, in quello che dovrebbe essere un tranquillo viaggio come tanti altri.  

Da quando ho iniziato a lavorare in UK, ho già seguito due brevi seminari sulla gestione dei rapporti conflittuali e sul customer service.
Superata l’iniziale sorpresa (sono un infermiere, a cosa mi serviranno mai questi corsi?) ne ho subito realizzato l’essenzialità per la gestione quotidiana del rapporto con i pazienti.

E’ bene ricordare che anche loro hanno pagato e continuano a pagare per il servizio offerto dal sistema sanitario, sebbene non estraggano la loro carta di credito: hanno quindi diritto a ricevere un servizio efficiente ed efficace, basato anche su una comunicazione mirata. 
Così come quando ci si affida ad un vettore aereo, anche nel momento in cui si entra in un ospedale il cliente-utente-paziente è parte debole (ma per altri versi forte) del rapporto che si viene ad instaurare con il professionista che si incontra, sia esso steward, hostess, oppure medico od infermiere. 
Il cliente-utente-paziente, infatti, è un soggetto che manca di informazioni fondamentali sulla prosecuzione del rapporto.
Quando si sale su un aereo, non si conoscono le procedure di decollo. 
Analogamente, quando si entra nel Pronto Soccorso o nel Day Surgery di un Ospedale, non si conoscono, se non sommariamente, le cause di attribuzione di questo o quel codice di attesa, né la gravità della condizione clinica degli altri pazienti, né il numero di operatori in turno quel giorno, né la lista operatoria.
In tutti e due i casi, l’unica cosa certa è che si dovrà attendere e che la durata dell’attesa dipenderà dalle capacità e dalle competenze di professionisti cui ci si affida in tutto e per tutto.
L’attesa può inoltre diventare indeterminata non solo in un Pronto Soccorso od in un Day Surgery, ma anche nel caso si verifichi un ritardo nel volo, oppure nell’ipotesi in cui l’idraulico che abbiamo chiamato sia impegnato in altri lavori. 
E’ in questa fase che diventa essenziale la comunicazione con il cliente-utente-paziente.
Solo uno sciocco può pretendere che non si verifichino contrattempi o ritardi, ma solo uno sciocco può attendere all’infinito senza ricevere aggiornamenti, spiegazioni e soprattutto senza perdere la calma.  
E’ veramente sorprendente e, per certi versi, deludente, constatare che la maggior parte delle lamentele (come quella che io stesso ho scritto stamattina al vettore aereo) e delle controversie, anche legali, nasca proprio dalla carenza di assistenza al cliente. 
L’immagine che si restituisce in questi casi, inoltre, è quella di un professionista indifferente non solo al cliente, ma anche al suo stesso lavoro: se non mi fai sapere perché la mia attesa si è prolungata, vuol dire che anche a te non importa nulla di quello che stai facendo.
E’ questa sfiducia, tutto sommato, la causa di molte proteste e lamentele in una struttura ospedaliera, specialmente in un Pronto Soccorso italiano. 
Non sarà un caso se alla comunicazione verbale dell’operatore si è sostituita quella digitale di un display; tuttavia, traendo spunto dall’esperienza inglese, mi sento di suggerire ad ogni operatore sanitario due ulteriori, piccoli stratagemmi per calmare le acque e recuperare un rapporto con il paziente che si sta sfaldando, minuto dopo minuto:
1) la magica tazza di té (o caffé, od acqua). Provate ad offrire un piccolo rinfresco, come la tradizionale tazza di té con un sorso di latte (e senza zucchero) che si usa preparare qui in Inghilterra, e vedrete quante tensioni scioglierà, dando il tempo anche a voi di recuperare informazioni per comprendere le ragioni del ritardo, di cui spesso nemmeno voi siete a conoscenza. 
Lo so, attuare questa strategia in un affollato Pronto Soccorso è complicato, ma magari nel contesto di un ambulatorio o di un Day Surgery ci si potrebbe provare. 
Lo so, in Italia, il caffè lo paghi al distributore automatico.
Magari un bicchiere d’acqua e due biscotti possono funzionare lo stesso. Specie con i pazienti diabetici in attesa da ore, credetemi.
2) esordite presentando le vostre scuse. 
Gli Inglesi sono famosi per scusarsi anche senza motivo. 
E’ vero. Ma serve, in tanti contesti. 
Magari non è colpa vostra. 
Tuttavia, la posizione di sottomissione nella quale vi ponete, rispetto al cliente, cancellerà nella mente di quest’ultimo la sensazione di sentirsi un “suddito pagante” e vi permetterà di iniziare una discussione proficua, Nessun cliente-paziente vi chiederà di garantire un certo risultato. 
Ma vi chiederà sempre di essere informato e vorrà, anche se inconsciamente, le vostre scuse. 
Altrimenti le pretenderà, rumorosamente o per iscritto. 
Esattamente come ho fatto io stamattina, dopo non aver ricevuto, ieri notte, né un bicchiere d’acqua (fornitomi solo su richiesta), né le scuse per il grave ritardo accumulato (se non da uno steward e solo alla fine del viaggio). 
Attendo ancora una risposta.