“Dal 24 giugno potrei essere un immigrato clandestino!”
Ogni volta che ripeto questa frase incontro sguardi di stupore, disapprovazione, conforto da parte di tutti I miei colleghi, non importa l’angolo del pianeta dal quale provengano. “Non cambiera’ niente”, “Le procedure saranno le stesse”, “Non preoccuparti”, mi rispondono.
Io non mi preoccupo affatto, per le ragioni che esporro’ a breve, ma e’ proprio questo cio’ che accadra’ se la Gran Bretagna dovesse decidere giovedi’ prossimo, il 23 Giugno, di uscire dall’Unione Europea, ovvero di mettere in atto il famoso Brexit: oltre due milioni di immigrati comunitari, una buona fetta di loro professionisti impiegati in settori strategici e vitali per l’economia e la societa’ inglese, come il sottoscritto, diventeranno, di fatto, immigrati clandestini, in quanto senza permesso di soggiorno e lavoro.
Saremo in buona compagnia: con noi, sul versante opposto (e nel silenzio generale dei mass media britannici), due milioni di inglesi, la piu’ grande comunita’ di expat, ovvero di emigrati, in Europa, vivra’ lo stesso cambiamento.
Gli scenari futuri sono gia’ stati prefigurati, con tinte discordanti, dai sostenitori del “leave” (lasciare) o dello “stay in” (rimanere). Il Primo Ministro inglese David Cameron ha gia’ paventato 10 anni di recessione, l’abbandono da parte delle multinazionali e delle banche di Londra in favore di Parigi, tagli alle spese ed ai servizi, un regime di austerita’ che determinerebbe una riduzione media degli stipendi di quasi 160 sterline mensili. Sostenitori della permanenza dell’Unione sono anche le associazioni degli imprenditori e degli industriali, a larghissima maggioranza.
Sul versante opposto, i sostenitori del Brexit, principalmente i movimenti conservatori e nazionalisti, giurano che i risparmi derivanti dai mancati emolumenti all’UE permetterebbero reinvestimenti nel welfare britannico tali da poter costruire un nuovo ospedale pubblico a settimana.
Anche negli altri Paesi d’Europa le opinioni di analisti e governanti appaiono divergenti, in relazione anche all’intensita’ degli scambi commerciali di ogni singolo Paese con la Gran Bretagna.
Sotto questo profilo, il danno che deriverebbe all’Italia sarebbe piuttosto limitato, considerato che il nostro import-export verso il Regno Unito e’ nettamente inferiore a quello di Paesi come la Germania, la Spagna od I Paesi Bassi.
Le difficolta’ per l’Italia e gli Italiani post Brexit si presenterebbero invece sotto un altro aspetto.
I trattati costitutivi dell’Unione Europea hanno infatti creato un’area di libero scambio non solo di merci, servizi e capitali, ma anche di persone: nello specifico, lavoratori e turisti.
Il nostro Paese e’ vincolato a doppio filo con la Gran Bretagna proprio per quanto attiene alla circolazione di turisti (che si muovono in prevalenza dal Regno Unito verso il nostro Paese) e di lavoratori (che si spostano invece, perlopiu’ nella direzione opposta, tanto da essere arrivati, secondo le ultime statistiche, a 550.000 nel regno Unito, 250.000 nella sola Londra).
Cosa accadra’, quindi, agli emigranti italiani per effetto dell’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea? E perche’ il Brexit dovrebbe necessariamente rappresentare un problema?
Essere membri dell’Unione significa automaticamente sottostarne alle regole, che definiscono procedure, parametri, controlli.
Queste regole spesso si impongono anche sulla legislazione sovrana: l’adesione all’Ue obbliga il Paese, insomna, ad applicare le regole comunitarie e non le proprie.
Cio’, tuttavia, elimina la necessita’ di controlli e verifiche alle dogane ed ai confini di Stato: il rispetto delle stesse legislazioni e standard costituisce, in buona sostanza, una garanzia di sicurezza. E’ per questa ragione che alla frontiera con un altro Paese comunitario non devo dichiarare la ragione della mia permanenza, non devo fornire impronte digitali o scansioni della retina: non costituisco un pericolo, se sono un criminale sono gia’ stato monitorato nel mio Paese e bloccato prima di varcare la frontiera (od almeno cosi’ dovrebbe essere).
Se esporto merci, la loro qualita’ sara’ gia’ conforme agli standard del Paese entrante e identici a quelli del Paese esportante.
In buona sostanza: meno burocrazia, piu’ velocita’ di trasferimento, per tutto e tutti.
Niente permessi di soggiorno, ne’ dazi doganali. Si sostiene spesso che l’Unione Europea sia solo un enorme labirinto burocratico, ma le lunghe negoziazioni spesso necessarie per adottare un nuovo provvedimento nascono dalla necessità di trovare un compromesso tra decine di Nazioni diverse e per semplificare le successive attività che da quella legislazione dipendono.
Il Brexit potrebbe dunque generare un nuovo appesantimento della burocrazia in UK ed una reintroduzione di controlli caduti in disuso, da o verso l’Unione Europea o in entrambe le direzioni. Cio’ comporterebbe un rallentamento degli scambi tale da indurre effettivamente le maggiori imprese straniere a lasciare il territorio britannico per altri lidi, con perdita di migliaia di posti di lavoro, come da molte già minacciato, specialmente dalle banche.
Ma potrebbe costringere – ed e’ questo il punto cruciale della questione, dal mio punto di vista – tutti i cittadini comunitari intenzionati a stabilirsi nel Regno a richiedere permessi di soggiorno e di lavoro per permanere per un periodo più lungo di sei mesi, ovvero ad ottenere la celebre (e famigerata) VISA, la cui durata sarebbe maggiore nel caso dei professionals per i quali vi è una shortage, ovvero una scarsità delle posizioni già ricoperte e quindi una maggiore domanda (parliamo in questo caso della “skilled VISA”).
Da notare che la domanda per l’ottenimento della VISA costa alcune centinaia di sterline: interessante chiedersi chi pagherebbe la somma.
Nell’ipotesi del Brexit, chi è già impiegato non dovrebbe avere alcuna preoccupazione (come il sottoscritto): saranno invece le Autorità inglesi ed i datori di lavoro, in questo caso, a doversi preoccupare (un bel pò, a mio parere) per attuare gli adempimenti necessari a regolarizzare un oceano di immigrati senza perdere posizioni chiave nei loro organigrammi, a cominciare dall’NHS, il Servizio Sanitario Inglese.
Anche vero, tuttavia, che in base ai trattati istitutivi dell’Unione Europea qualunque stato uscente è tenuto a formalizzare la sua decisione presentando notifica al Consiglio Europeo ed ha poi due anni allo stato uscente per lasciar decadere automaticamente gli accordi di adesione, per rinegoziarli con gli altri Stati membri, o addirittura per conservarli: ma questo lungo periodo di incertezza, tuttavia, sarebbe di per sè già foriero di gravi danni all’economia britannica: nessuna grande azienda effettuerebbe nuovi investimenti in un Paese in cui le prospettive future appaiono come un cielo grigio e denso di nuvole.
Lecito supporre, poi, che l’UE principalmente nella persona dei rappresentanti di Francia e Germania, inizierebbe una lunga e durissima serie di ritorsioni e strette negoziali per ridurre la Gran Bretagna a più miti pretese, mentre I diplomatici di Sua Maestà punterebbero invece ad accordi doganali ed economici di maggior favore.
Il Brexit, insomma, potrebbe segnare una svolta epocale anche in termini di guerra fredda, questa volta puramente diplomatica ed economica, tra I Paesi comunitari ed il Regno Unito, che peraltro, è bene ricordarlo, non si è mai pienamente integrato nell’Unione, non avendo aderito alla moneta unica nè agli Accordi di Schengen, ma avendo solo accolto una parte di questi ultimi. .
Enormi barriere verrebbero invece frapposte ai nuovi immigrati, costretti a bypassare una serie di ostacoli (stipula del contratto di lavoro, superamento di test di lingua, ecc.) per permanere in Gran Bretagna, così come avviene, del resto, per gli extracomunitari, che infatti considerano la libera circolazione dei lavoratori comunitari come un “privilegio” niente affatto gradito e sono pertanto favorevoli al Brexit.
Lo scenario alle porte, in buona sostanza, appare talmente complesso da poter procedere in qualunque direzione. Dal mio punto di vista, osservo incuriosito ed in buona sostanza indifferente, potendo – per mia fortuna – godere di un contratto di lavoro e ricoprendo una posizione chiave nel sistema del welfare britannico (non a caso sono classificato come keyworker), ma non nascondo che nel profondo nutro qualche preoccupazione sulla salute dell’economia di questo Paese, che andrebbe ad inficiare anche la mia qualità di vita nel caso in cui il Brexit generasse il tracollo che alcuni paventano.
Ho inoltre constatato che mentre I sostemitori dello “stay in” hanno da sempre puntato i loro riflettori sul possibile andamento negativo dell’economia nell’ipotesi di una uscita dall’Unione, i promotori della campagna a favore del “leave” hanno parlato quasi esclusivamente alla pancia dell’elettore, ostinandosi ad incentrare la loro attenzione sul tema dell’immgrazione e mancando completamente, a mio parere, il bersaglio delle loro rivendicazioni.
“Dal 24 giugno potrei essere un immigrato clandestino!” Ogni volta che ripeto questa frase incontro sguardi di stupore, disapprovazione, conforto da parte di tutti I miei colleghi, non importa l’angolo del pianeta dal quale provengano. “Non cambiera’ niente”, “Le procedure saranno le stesse”, “Non preoccuparti”, mi rispondono.
Io non mi preoccupo affatto, per le ragioni che esporro’ a breve, ma e’ proprio questo cio’ che accadra’ se la Gran Bretagna dovesse decidere giovedi’ prossimo di uscire dall’Unione Europea, il famoso Brexit: un milione e mezzo di immigrati comunitari, una buona fetta di loro professionisti impiegati in settori strategici e vitali per l’economia e la societa’ inglese, come il sottoscritto, diventeranno, di fatto, immigrati clandestini.
Saremo in buona compagnia: con noi, sul versante opposto (e nel silenzio generale dei mass media britannici), due milioni di inglesi, la piu’ grande comunita’ di expat, ovvero di emigrati, in Europa, vivra’ lo stesso cambiamento.
Gli scenari futuri sono gia’ stati prefigurati, con tinte discordanti, dai sostenitori del “leave” (lasciare) o dello “stay in” (rimanere). Il Primo ministro inglese David Cameron ha gia’ paventato 10 anni di recessione, l’abbandono da parte delle multinazionali e delle banche di Londra in favore di Parigi, tagli alle spese ed ai servizi, un regime di austerita’ che determinerebbe una riduzione media degli stipendi di quasi 160 sterline mensili. Sostenitori della permanenza dell’Unione sono anche le associazioni degli imprenditori e degli industriali, a larghissima maggioranza.
Sul versante opposto, i sostenitori del Brexit, principalmente i movimenti conservatori e nazionalisti, giurano che i risparmi derivanti dai mancati emolumenti all’UE permetterebbero reinvestimenti nel welfare britannico tali da poter costruire un nuovo ospedale pubblico a settimana.
Anche negli altri Paesi d’Europa le opinioni di analisti e governanti appaiono divergenti, in relazione anche all’intensita’ degli scambi commerciali di ogni singolo Paese con la Gran Bretagna.
Sotto questo profilo, il danno che deriverebbe all’Italia sarebbe piuttosto limitato, considerato che il nostro import-export verso il Regno Unito e’ nettamente inferiore a quello di Paesi come la Germania, la Spagna od I Paesi Bassi.
Le difficolta’ per l’Italia e gli Italiani post Brexit si presenterebbero invece sotto un altro aspetto.
I trattati costitutivi dell’Unione Europea hanno infatti creato un’area di libero scambio non solo di merci, servizi e capitali, ma anche di persone: nello specifico, lavoratori e turisti.
Il nostro Paese e’ vincolato a doppio filo con la Gran Bretagna proprio per quanto attiene alla circolazione di turisti (che si muovono in prevalenza dal Regno Unito verso il nostro Paese) e di lavoratori (che si spostano invece, perlopiu’ nella direzione opposta, tanto da essere arrivati, secondo le ultime statistiche, a 550.000 nel regno Unito, 250.000 nella sola Londra).
Cosa accadra’, quindi, agli emigranti italiani per effetto dell’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea? E perche’ il Brexit dovrebbe necessariamente rappresentare un problema?
Essere membri dell’Unione significa automaticamente sottostarne alle regole, che definiscono procedure, parametri, controlli.
Queste regole spesso si impongono anche sulla legislazione sovrana: l’adesione all’Ue obbliga il Paese, insomna, ad applicare le regole comunitarie e non le proprie.
Cio’, tuttavia, elimina la necessita’ di controlli e verifiche alle dogane ed ai confini di Stato: il rispetto delle stesse legislazioni e standard costituisce, in buona sostanza, una garanzia di sicurezza. E’ per questa ragione che alla frontiera con un altro Paese comunitario non devo dichiarare la ragione della mia permanenza, non devo fornire impronte digitali o scansioni della retina: non costituisco un pericolo, se sono un criminale sono gia’ stato monitorato nel mio Paese e bloccato prima di varcare la frontiera (od almeno cosi’ dovrebbe essere).
Se esporto merci, la loro qualita’ sara’ gia’ conforme agli standard del Paese entrante e identici a quelli del Paese esportante.
In buona sostanza: meno burocrazia, piu’ velocita’ di trasferimento, per tutto e tutti.
Niente permessi di soggiorno, ne’ dazi doganali. Si sostiene spesso che l’Unione Europea sia solo un enorme labirinto burocratico, ma le lunghe negoziazioni spesso necessarie per adottare un nuovo provvedimento nascono dalla necessità di trovare un compromesso tra decine di Nazioni diverse e per semplificare le successive attività che da quella legislazione dipendono.
Il Brexit potrebbe dunque generare un nuovo appesantimento della burocrazia in UK ed una reintroduzione di controlli caduti in disuso, da o verso l’Unione Europea o in entrambe le direzioni. Cio’ comporterebbe un rallentamento degli scambi tale da indurre effettivamente le maggiori imprese straniere a lasciare il territorio britannico per altri lidi, con perdita di migliaia di posti di lavoro, come da molte già minacciato, specialmente dalle banche.
Ma potrebbe costringere – ed e’ questo il punto cruciale della questione, dal mio punto di vista – tutti i cittadini comunitari intenzionati a stabilirsi nel Regno a richiedere permessi di soggiorno e di lavoro per permanere per un periodo più lungo di sei mesi, ovvero ad ottenere la celebre (e famigerata) VISA, la cui durata sarebbe maggiore nel caso dei professionals per i quali vi è una shortage, ovvero una scarsità delle posizioni già ricoperte e quindi una maggiore domanda (parliamo in questo caso della “skilled VISA”).
Da notare che la domanda per l’ottenimento della VISA costa alcune centinaia di sterline: interessante chiedersi chi pagherebbe la somma.
Nell’ipotesi del Brexit, chi è già impiegato non dovrebbe avere alcuna preoccupazione (come il sottoscritto): saranno invece le Autorità inglesi ed i datori di lavoro, in questo caso, a doversi preoccupare (un bel pò, a mio parere) per attuare gli adempimenti necessari a regolarizzare un oceano di immigrati senza perdere posizioni chiave nei loro organigrammi, a cominciare dall’NHS, il Servizio Sanitario Inglese.
Anche vero, tuttavia, che in base ai trattati istitutivi dell’Unione Europea qualunque stato uscente è tenuto a formalizzare la sua decisione presentando notifica al Consiglio Europeo ed ha poi due anni allo stato uscente per lasciar decadere automaticamente gli accordi di adesione, per rinegoziarli con gli altri Stati membri, o addirittura per conservarli: ma questo lungo periodo di incertezza, tuttavia, sarebbe di per sè già foriero di gravi danni all’economia britannica: nessuna grande azienda effettuerebbe nuovi investimenti in un Paese in cui le prospettive future appaiono come un cielo grigio e denso di nuvole.
Lecito supporre, poi, che l’UE principalmente nella persona dei rappresentanti di Francia e Germania, inizierebbe una lunga e durissima serie di ritorsioni e strette negoziali per ridurre la Gran Bretagna a più miti pretese, mentre I diplomatici di Sua Maestà punterebbero invece ad accordi doganali ed economici di maggior favore.
Il Brexit, insomma, potrebbe segnare una svolta epocale anche in termini di guerra fredda, questa volta puramente diplomatica ed economica, tra I Paesi comunitari ed il Regno Unito, che peraltro, è bene ricordarlo, non si è mai pienamente integrato nell’Unione, non avendo aderito alla moneta unica nè agli Accordi di Schengen, ma avendo solo accolto una parte di questi ultimi. .
Enormi barriere verrebbero invece frapposte ai nuovi immigrati, costretti a bypassare una serie di ostacoli (stipula del contratto di lavoro con uno sponsor, superamento di test di lingua, ecc.) per permanere in Gran Bretagna, così come avviene, del resto, per gli extracomunitari, che infatti considerano la libera circolazione dei lavoratori comunitari come un “privilegio” niente affatto gradito e sono pertanto favorevoli al Brexit.
Lo scenario alle porte, in buona sostanza, appare talmente complesso da poter procedere in qualunque direzione. Dal mio punto di vista, osservo incuriosito ed in buona sostanza indifferente, potendo – per mia fortuna – godere di un contratto di lavoro e ricoprendo una posizione chiave nel sistema del welfare britannico (non a caso sono classificato come keyworker), ma non nascondo che nel profondo nutro qualche preoccupazione sulla salute dell’economia di questo Paese, che andrebbe ad inficiare anche la mia qualità di vita, nel caso in cui il Brexit generasse il tracollo che alcuni paventano.
Ho inoltre constatato che mentre i sostemitori dello “stay in” hanno da sempre puntato i loro riflettori sul possibile andamento negativo dell’economia nell’ipotesi di una uscita dall’Unione, i promotori della campagna a favore del “leave” hanno parlato quasi esclusivamente alla pancia dell’elettore, ostinandosi ad incentrare la loro attenzione sul tema dell’immgrazione e mancando completamente, a mio parere, il bersaglio delle loro rivendicazioni.
Sostengono infatti i promotori del referendum, ovvero i sostenitori dell’uscita, che l’immigrazione dai Paesi comunitari e principalmente dalle Nazioni più povere d’Europa, quali Polonia, Bulgaria e Romania, ha sovraccaricato i servizi pubblici, in primo luogo quelli sanitari, ha aumentato a dismisura la percentuale di persone richiedenti sussidi sociali (i cosiddetti benefits), ha determinato un livellamento dei salari ed un aumento del costo medio degli affitti, conseguente all’aumento della domanda.
Di questi punti, senza dubbio i primi due sono invece legati agli immigrati provenienti dalle ex colonie di Sua Maestà.
Basta recarsi in un qualnuque ospedale per rendersene conto: la maggior parte dei pazienti sono cittadini extracomunitari, provenienti da aree del mondo in cui l’assistenza sanitaria è inesistente o comunque fortemente deficitaria.
Gli stessi che, spesso privi di una istruzione scolastica superiore, svolgono poi lavori umili o richiedono sussidi di disoccupazione.
D’altro lato, è facile constatare come, soprattutto negli ultimi anni, grandi datori di lavoro come NHS (il primo in UK, con i suoi 5 milioni di dipendenti) abbiano attinto abbondantemente da Nazioni come Spagna, Grecia, Italia e Portogallo per colmare le lacune di medici, infermieri ed operatori a vario titolo presenti nel suo organico.
Anche in altri settori, nei quali si richiede una minore preparazione e competenza professionale, l’afflusso di comunitari ha generato un apporto non di disoccupati, ma di forza lavoro che ha ridato nuovo vigore all’economia di mercato anche in regioni del Regno Unito dapprima depresse.
Non è facile, in effetti, rimanere in Gran Bretagna senza un lavoro per molto tempo: le spese sono ingenti, ma evidentemente si tratta di un aspetto ignorato da politici a favore (ma anche contro) il Brexit.
Altro tema cruciale dei “Brexit campaigners” sono i presunti risparmi ed i possibili reinvestimenti nel welfare nazionale derivanti dalla fine della contribuzione in favore dell’Unione. Anche qui, si omette di ricordare agli elettori che l’Inghilterra versa sì ingenti somme a Bruxelles, ma riceve in cambio ogni anno Miliardi di Euro per finanziare i suoi progetti di sviluppo.
Miliardi a cui non si avrebbe più accesso in caso di uscita.
I toni usati sono stati poi così accesi e contrassegnati dalle solite populistiche ed altisonanti dichiarazioni (quali “l’Inghilterra è degli Inglesi” e via dicendo), da degenerare nel recente fatto di sangue che ha shockato l’opinione pubblica inglese la scorsa settimana, ovvero l’omicidio della deputata Jo Cox da parte di un sedicente nazionalista al grido di “Britain first”, la Gran Bretagna prima di tutto. Non a caso, negli ultimi giorni entrambe le fazioni richiamano continuamente alla calma e ad un civile confronto.
Il quadro generale che ne emerge, insomma, appare sempre più rischioso e delicato a mano a mano che lo si esamina in profondità e c’è solo da augurarsi che il popolo inglese compia una scelta ponderata e coscienziosa, votando per rimanere nell’Unione, tanto per tirare, ovviamente, acqua al mio mulino ed a quello di tutti gli Italiani.
Good luck!