A Londra un’ora di commuting, ovvero di trasferimento dalla propria abitazione al luogo di lavoro, è considerato un tempo accettabile.
C’è chi ne impiega anche due. Come lo tollerino, proprio non lo so.
Io ce ne impiego un poco meno, quindi trascorro un bel pò di tempo sui mezzi pubblici.
Ho quindi trasformato a poco a poco il mio smartphone in una finestra aperta sul mondo, con cui interagisco perfino quando sono in metro (nelle stazioni della Tube si può usufruire del wifi gratuitamente, previa registrazione con una scheda telefonica inglese).
Un paio di giorni addietro mi e’ capitato di scaricare una mail che proponeva l’adesione ad un fondo pensionistico destinato ai dipendenti pubblici e privati del Servizio Sanitario Nazionale, dunque mi interessava molto poco – per ovvie ragioni.
Mi e’ balzata all’occhio però un’espressione che mi ha fatto rizzare i capelli: “download della versione editabile”. Cioè modificabile, dall’inglese “to edit”.
E’ vero che ormai la nostra lingua è infarcita di termini inglesi che usiamo a sproposito, soprattutto nel mondo degli affari (o dovrei dire del business?) o dell’informatica, entrati anche nel nostro Dizionario, con la somma e – oserei dire, vista la novità di questi giorni – petalosa benedizione dell’Accademia della Crusca. E’ vero che gli Italiani sono un popolo contraddittoriamente tanto digiuno di inglese quanto esterofilo, tanto che i mass media e gli stessi politici promotori di nuove leggi definiscono le stesse con espressioni anglosassoni come jobs act (“il provvedimento dei lavori”) o stepchild adoption (“l’adozione del figlio adottivo”!), nella speranza che il popolo creda che il nuovo provvedimento rappresenti una grande ventata di novità e non il solito pasticcio normativo; ma un simile livello di barbara anglicizzazione del nostro meraviglioso idioma ancora non l’avevo vista.
Anche perchè la parola corrispondente in Italiano esiste ed è comune: basta scrivere modificabile.
Ormai sono diventato bilingue, ma quando mi rivolgo a connazionali faccio ancora uno stretto ricorso all’Italiano nei miei scritti e nei miei discorsi, anche se mi rendo conto che non posso evitare di inserire un termine inglese qua e là, specie quando impiego espressioni tecniche relative al mio lavoro.
Ho dovuto cercare su Internet, per esempio, l’espressione italiana che traduce la “slit lamp”, ovvero il macchinario quotidianamente usato nel mio reparto e in genere nel mio Ospedale per l’esame generale delle strutture oculari: si tratta della “lampada a fessura” o “biomicroscopio”.
Buono a sapersi.
Per non parlare delle varie chart e forms, cioè dei moduli che impieghiamo quotidianamente per monitorare l’assistenza infermieristica e lo stato di salute generale del paziente.
Un pò per gioco e un pò per un’abitudine pigramente mantenuta, tuttavia, nelle chiacchiere tra noi emigranti ci si diverte spesso a mixare (è proprio il caso di usare questo termine) parole italiane ed inglesi. Sta prendendo quindi forma a poco a poco l’Itaglish, uno slang, cioè un dialetto, formato da Italiano e English.
Ringrazio il mio collega Antonio, che spesso bacchetto scherzosamente per la sua tendenza a fondere le due lingue persino nei messaggi Whatsapp, per avermi passato questo termine, anche se non ho alcuna informazione certa su chi lo abbia coniato.
Esempio più comune di Itaglish è “enjoyarsi”, ovvero godersela, spassarsela. Ma anche “pusharsi” (ovvero spingersi, recarsi) in un locale od a casa di qualcuno è diventato comune; quando si è molto incasinati o indaffarati poi, si è “busyssimi”.
Anche i tormentoni social ormai vengono automaticamente tradotti e il celebre #mainagioia è diventato #neverajoy.
Sono piccoli esempi di un nuovo gergo che va spargendosi a macchia d’olio sempre più rapidamente in concomitanza con l’incremento dell’ondata degli Italiani presenti in UK. Si tratta anche di un escamotage per familiarizzare con una lingua che alle volte si rivela ostica e porta a più di una incomprensione ed imbarazzo.
Gli Italiani che vivono in Inghilterra e che ho avuto modo di conoscere sono, tuttavia, ben lontani dall’inserire termini inglesi a sproposito solo “per darsi un tono”.
Storia ben diversa rispetto a quella di tanti politici a cui – non lo nascondo – per ripicca ho talvolta commentato i loro post in inglese: loro rappresentano lo Stato ed il popolo italiano, quindi hanno – se non l’obbligo – il dovere morale di usare la nostra Madrelingua.
Al prossimo post.